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vendredi, 20 septembre 2013

L`Egitto verso i non allineati

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L`Egitto verso i non allineati

 

Il Cairo rifiuta il prestito Fmi e guarda ai Brics

Lorenzo Moore

E' questa l'altra faccia dello stato di tensione che percorre la politica internazionale e che, facendo perno sulla necessità occidentale (atlantica) di destabilizzare e dividere quello che il nostro più vicino oriente, ha fortunatamente fatto emergere forze di radicale contrasto tra i Paesi non allineati, Iran compreso. Nell'attuale governo provvisorio de Il Cairo, imposto due mesi fa dal generale Abdul Fatah Khalil as-Sisi dopo la deposizione del presidente Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, e il conseguente bagno di sangue, sta emergendo una linea di avvicinamento ai Paesi non allineati del blocco dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Una deviazione inattesa dalle diplomazie occidentali, già patrocinatrici della "primavera" che aveva determinato il crollo del presidente Mubarak,e che in un certo senso "rivoluziona" sia le virtuali alleanze con Riad e le altre monarchie del Golfo e sia i recenti collegamenti con Ankara.

Tutto si è iniziato con la recente decisione egiziana di rifiutare un nuovo prestito da parte del Fmi e dalla contemporanea dichiarazione, da parte del ministro degli Esteri Nabil Fahmy su un Egitto vittima di un "complotto internazionale" la cui mano armata sarebbero gli "atti di terrorismo" che si verificano in queste settimane all'interno del territorio nazionale "amplificati dai media internazionali" (un'accusa esplicita contro la catena televisiva qatariota al Jazeera e indiretta alla nordamericana Cnn).
Sta di fatto che vari sono stati in questi ultimi tempi i segnali di un "riallineamento dell'Egitto" verso i BRICS e al di fuori del cerchio di alleanze con l'Occidente (Stati Uniti in primis), con l'Arabia saudita e con gli Stati del Golfo.
Lunedì 16 settembre, peraltro, lo stesso Nabil Fahmy, nel corso di una visita ufficiale in Russia, ha dichiarato in un'intervista a Moscow News e a Ria Novosti che "l'Egitto apprezza il sostegno russo alle istanze del popolo egiziano" e ha annunciato lo "sviluppo" di proficue relazioni bilaterali di cooperazione e interessi comuni". Non solo, ma Nabil Fahmy ha dichiarato che il Cairo "apprezza l'iniziativa diplomatica russa sulle armi chimiche in Siria" e  si augura che il suo successo possa  "tutelare la regione del Medio Oriente da una minaccia di divisione" che invece provocherebbe una soluzione militare.
Un'inversione di tendenza, nella politica regionale, a tutto tondo. Sull'Egitto guidato da Morsi, infatti, sia il Qatar che le monarchie arabe alleate degli angloamericani, avevano rivolto le loro pressanti attenzioni per far schierare il Cairo nel fronte di aggressione contro la Siria. Una strategia di sostegno alla Fratellanza Musulmana iniziata dal Qatar fin dal 2008, con l'accensione delle micce di destabilizzazione (dette "Primavere arabe"), in Turchia, Siria, Libano, Palestina, Libia e nello stesso Egitto. Sotto la presidenza Morsi, inoltre, era stata coltivata una spirale di tensione contro l'Etiopia, accusata di attentare alle risorse idriche egiziane con la costruzione di una diga sul Nilo Azzurro per la produzione di energia elettrica.
In questo evidente inizio di riallineamento dell'Egitto su un fronte non allineato, con un ritorno agli equilibri fino ai primissimi anni Settanta, non è inoltre un caso che giochino anche sostanziosi interessi finanziari.
Nei mesi appena precedenti il rovesciamento della presidenza Morsi, l'Egitto aveva ricevuto aiuti per 5 miliardi di dollari dall'Arabia saudita (1 a fondo perduto, 2 con depositi nella sua Banca centrale e 2 con la fornitura di gas e petrolio), per 4 miliardi di dollari dal Kuwait (1 a fondo perduto, 2 in depositi e 1 in forniture petrolifere), 3 miliardi di dollari dagli Emirati Arabi Uniti (1 a fondo perduto e 2 in depositi). Inoltre il Cairo aveva negoziato 1,3 miliardi di dollari di aiuti dagli Usa (comprensivi della fornitura di 20 cacciabombardieri F-16).
La rinuncia all'ulteriore prestito del Fmi - annunciata ufficialmente dal ministro egiziano delle finanze - viene messa dagli analisti del Vicino Oriente in stretta correlazione con la decisione del gruppo non allineato dei Brics (presa a latere del recente G20 a San Pietroburgo) di capitalizzare la propria Banca per lo Sviluppo con 100 miliardi di dollari e di dare seguito a breve ad operazioni di finanziamento ai Paesi emergenti (Egitto, così, incluso).
E' questa l'altra faccia dello stato di tensione che percorre la politica internazionale e che, facendo perno sulla necessità occidentale (atlantica) di destabilizzare e dividere quello che il nostro più vicino oriente, ha fortunatamente fatto emergere forze di radicale contrasto tra i Paesi non allineati, Iran compreso. 
 

17 Settembre 2013 12:00:00 - http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22399

dimanche, 15 septembre 2013

Iran Will Stand Up for Syria With All its Might

 

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Iran Will Stand Up for Syria With All its Might

Nikolai Bobkin

Ex: http://www.strategic-culture.org

The US administration has launched the process of getting congressional approval of an attack against Syria. The Senate foreign affairs committee has voted for the resolution supporting the planned action. The next step is moving the motion to the full Senate and then to the House of Representative to receive bipartisan support. This way Washington is trying to make the decision to strike Syria look legitimate, even if it is going around the UN Security Council. 

The prediction that the war will spill over to encompass the entire Middle East in case the United States strikes Syria is coming true. As it was supposed to be, the first outside actor to get involved is Iran.  The enlistment is on, Iranian young people are willing to put on uniform and defend Syria. The number of volunteers is nearing 100 thousand. They have sent a letter to the President of Syria asking for his permission to be deployed in the area of Golan Heights… They want their government to provide airlift to Syria across the Iraqi airspace. Iraq is the country with large Shiite population; the probability is high that thousands of Shiites there will join the Iranian volunteers. Obama wanted the inter-religious strife in the Middle East turn into a slaughter of universal scope, now he can get it, or to be more exact, he can provoke its start in Syria by launching the Tomahawk missiles against this country. 

It’s Syria that is in sight, but the main target is the Islamic Republic of Iran. The newly elected President Rouhani’s policy is aimed at normalization of relations with the West and putting a stop to international isolation. It evokes concern among the United States and Israel’s ruling circles.  It’s a long time since Americans have been putting blame on Iran for all the troubles of the Middle East, even when it was clear that Iran had nothing to do with what happened.  It may sound as a paradox, but the Tehran’s readiness to start the talks on nuclear program was perceived by the Obama’s administration as a threat to its interests.  According to the White House logic, it may lose the main argument in the confrontation with Tehran. Then the US sanctions will instill no fear anymore.  Europe is already sending unambiguous signals to demonstrate that it expects real progress to be achieved at the talks.  The US has no trade ties with Tehran and it views the sanctions as an effective leverage in the standoff while Europeans face multibillion losses.     

The argument of “Iranian nuclear threat” has become an obsession for Washington after Ahmadinejad is gone. It fully matches the intent to find a pretext for war. The Syrian phase of the military operation is to start pretty soon.     

Iran needs no war. Instead Iranians want Obama to seriously weigh the consequences of such action letting him know that there is no way he could hide behind the back of Congress. Iranian Foreign Minister Mohammad Javad Zarifsaid said, “Mr. Obama cannot interpret and change the international law based on his own wish.” He added, that, “Only the UN Security Council, under special circumstances, can authorize a collective action, and that will be under Chapter 7 of the UN Charter, and this issue needs the approval of the Security Council.” By and large it coincides with the Russia’s position.

Tehran sees no intrigue in the fact that Congress will finally sanction the war against Syria, it is just curious to see how the US lawmakers will manage to do it under the pretext of “punishing” Syria for using chemical weapons while going around the Iranian issue. The members of Congress will inevitably take into consideration the “Iranian factor.”  Calling for war against Syria, State Secretary John Kerry tries to convince lawmakers that, if no action is taken against Syria, Iran is more likely to move ahead on its nuclear program. Kerry does not deliberate on availability of direct link between the events in Syria and the Iranian nuclear program, he simply states the White House position. US Defense Secretary Chuck Hagel says taking no action against Syria will undermine the Washington’s ability to counter the Iranian nuclear efforts.  The US Congress is under heavy influence of Jewish lobby and the arguments work because, while being hostile to Syria, Israel always had Iran in mind.  Where exactly the “red line” is drawn presents a matter of rather minor importance for Israeli politicians.  Some Republicans in Congress not only support the action against Syria but call for an intervention of larger scale sayinga limited strike will not be enough to seriously scare Iran.  Astrike against Syria is likely to make Tehran boost its security, including the acquisition of nuclear weapons as a universal deterrent… This isa reasonable warning which is not heeded somehow.  Having Iran in sight, a military provocation against Syria is also aimed at stoking disagreement in the ranks of Iranian leadership.  Washington hopes that war-minded politicians will prevail and the Iranian government will have to cede and abandon balanced approaches to the issue.  Indeed, only a few months ago such overt threats from Washington would have stoked a storm of responses, former President Ahmadinejad used to strike the keynote. Now Iran appears to be extremely restrained. Talking to Obama in absentia, Iran’s Defense Minister Brig. Gen. Hossein Dehghan uses proper diplomatic language and insists that all problems should be solved by political means. 

Still, the public restraint of the new Iranian government should leave no illusions for Americans.  It’s not government bureaucrats they’ll have to deal with in case combat actions start, but rather the Iranian Republic’s armed forces - the guarantee of retaliation in case the country is attacked.

Iran’s chief of staff Hassan Firouzabadi was quoted declaring that if the US strikes Syria, Israel will be attacked.  It’s not an occasion that Iranian volunteers, who are going to defend Syria, pay no interest in being deployed in the areas adjacent to the borders with Turkey of Jordan. No, they want it to be the Golan Heights - the line of Syrian-Israeli border stand-off since a long time. A potential strike delivered by Iran against Israel in retaliation for US attacking Syria is the worst scenario of all; this is the case when it’s impossible to avoid a large-scale Middle East war.  Instead of taking a decision to back away from a military action against Syria, Obama is driving Iran against the wall by staging incessant provocations like. For instance, the recent demonstrative Israeli missile defense test in preparation for Iranian retaliatory strike.  




Republishing is welcomed with reference to Strategic Culture Foundation on-line journal www.strategic-culture.org.

samedi, 14 septembre 2013

Panarabismus statt Demokratie-​Export!

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Panarabismus statt Demokratie-​Export!

von Gereon Breuer

Ex: http://www.blauenarzisse.de

Die USA prüfen einen Demokratie-​Export nach Syrien. Einst sollte der Panarabismus den Islamismus zurückdrängen und die zerspaltene Arabische Welt einen.

Als am 28. September 1970 Gamal Abdel Nasser in Kairo einem Herzinfarkt erlag, starb nicht nur ein ägyptischer Staatspräsident, sondern auch der letzte prominente Vorkämpfer des Panarabismus. Welche Zukunft hat der Panarabismus heute?

Identitätskrise der arabischen Staaten

Die unter dem euphemistischen Begriff des „Arabischen Frühlings“ bekannt gewordene Welle von Aufständen des Volkes gegen seine Herrscher in der islamischen Welt schafft eine Lücke im Ringen um die Identität der arabischen Staaten. Nach dem Zusammenbruch des Osmanischen Reiches und der de-​facto-​Besatzung des fruchtbaren Halbmondes durch die Kolonialtruppen des britischen Empire und der Grande Nation, stürzte die arabische Welt in eine Identitätskrise, die bis heute nicht bewältigt scheint. Die Staaten und ihre zum Teil auf Geheiß der Besatzer installierten Führer fanden unterschiedliche Strategien, dieser Krise zu begegnen.

Eine dieser Strategien war der Panarabismus. Die Ursprünge dieser Bewegung liegen noch vor dem Beginn des zweiten Dreißigjährigen Krieges, als das Osmanische Reich de jure noch bestand, sein Zerfall aber nicht mehr zu leugnen war. Während für das Osmanische Reich und seinen Sultan die Umma – die Gemeinschaft der Muslime – die entscheidende Bezugsgröße war, setzte der Panarabismus auf die Identität der Nation. Es handelte sich um eine durchaus als nationalistisch zu bezeichnende politische Strömung, die alle Araber vom Atlantik bis zum Persischen Golf in einem gemeinsamen Staat vereinen wollte – das zumindest war der Anspruch.

Die Einigung aller Araber – vom Atlantik bis zum Persischen Golf

Es gab in der jüngeren Geschichte der nach-​osmanischen Staatenwelt mehrere Versuche, diesen Anspruch in die Wirklichkeit umzusetzen. Einen davon, der zu den bekanntesten gehört, wurde von Gamal Abdel Nasser unternommen. Mit der so genannten „Vereinigten Arabischen Republik“, in der Nasser Ägypten mit Syrien von 1958 bis 1961 zu quasi einem Staat zusammenschloss, versuchte der ägyptische Präsident, den Grundstein für eine alle arabischen Staaten umfassende Union zu legen.

Dieser Versuch misslang mit der Aufkündigung des Zusammenschlusses durch Syrien, das die ägyptische Vormachtstellung nicht akzeptieren wollte. Es war der bisher letzte Versuch, den Panarabismus in Form eines gemeinsamen arabischen Staates zu verwirklichen.

Stabilität gegen den Islamismus

Abseits der nationalistischen Bestrebungen Nassers, der die arabischen Staaten und Völker unter seiner Führung einen wollte und angesichts der aktuellen Entwicklungen in der arabischen Welt stellt sich die Frage, welche Zukunft der Panarabismus heute haben könnte. Um sie hinreichend und im überschaubaren Rahmen zu beantworten, sind zwei Aspekte bedeutsam. Der eine Aspekt ist, dass der Panarabismus Stabilität schafft. Der zweite, dass der Panarabismus in Opposition zum Islamismus steht. Beide Aspekte hängen zusammen.

Stabilität entsteht in der Hinsicht, dass eine gemeinsame Identität geboten wird, die zu akzeptieren für verschiedene arabische Völker beziehungsweise Stämme möglich ist. Die Identität des Arabischen in Sprache und Kultur kann der kleinste gemeinsame Nenner sein, der die arabischen Staaten miteinander verbindet. Das Machtstreben von Einzelpersonen, die sich zur autokratischen Herrschaft berufen fühlen, kann diese verbindende Identität freilich nicht verhindern. Ob sie es befördert, ist nicht zweifelsfrei zu sagen.

Nation vor Religion

Weil der Panarabismus den ideologischen Schwerpunkt im Bereich der Nation setzt, duldet er jedoch nicht die Vorherrschaft und die Reglementierung durch die Religion und die Ideologie des Islam. Der Grund hierfür liegt in der Zeit des Osmanischen Reiches. Der Sultan in Istanbul war nicht nur formal das weltliche Oberhaupt über die in seinem Reich lebenden Völker, sondern er beanspruchte auch die religiöse Herrschaft. Das empfanden nicht nur die Ägypter als Einschränkung. Es erscheint auch angesichts der vielen Strömungen innerhalb des Islam als mindestens problematisch, ein religiöses Oberhaupt zu akzeptieren. Der Vorzug der Nation, also des nationalen Aspektes des Arabischen, löst dieses Problem in einer Degradierung der Religion.

In der Zusammenschau beider Aspekte ergibt sich hinsichtlich heutiger Chancen des Panarabismus zur Stabilisierung der arabischen Welt folgendes Bild: Eine gemeinsame Identität aller arabischen Nationen erscheint durchaus vorteilhaft. Sie setzt diesen Aspekt vor den Islam und kann so extremistische religiöse Bestrebungen wie die Muslimbruderschaft in Ägypten einhegen.

Ein Staatenbund aller arabischen Staaten kann dann zwar ein hehres Ziel sein; viel wichtiger aber ist, dass eine Priorisierung der Gemeinsamkeiten aller arabischen Staaten verhindert, was im Osmanischen Reich zuletzt auf der Tagesordnung stand: Ein Scheitern an der oktroyierten Moderne mit den blutigsten Begleiterscheinungen.

Das Scheitern einer oktroyierten Moderne verhindern

Der Panarabismus ist schließlich kein politisches Konzept, wie es sich Demokratie-​Fetischisten für die arabische Welt wünschen. Das ist es nicht, weil es ein politisches Konzept der arabischen Welt ist, das aus ihr hervorgegangen ist. Aus diesem Grund kann der Panarabismus durchaus als erfolgversprechendes Modell für eine Stabilisierung der Staatenwelt zwischen Atlantik und Persischem Golf angesehen werden. Dabei wäre es irrelevant, ob ein westlicher Außenminister das gut findet, oder nicht.

mercredi, 04 septembre 2013

La destruction du monde arabe

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La destruction du monde arabe et notre élite hostile

 
Ex: http://www.les4verites.com

A quoi sert la destruction du monde arabe ?

Le vrai visage du printemps arabe – expression que l’on devait à Benoist-Méchin – m’est apparu ici assez vite : des foules marginales, manipulées et bien filmées par les télévisions du Qatar ont été parées de toutes les vertus ; le départ décrété nécessaire sur Facebook de leurs tyrans, auxquels on substituait les mandataires des oligarchies pro-anglo-saxonnes (on n’a pas beaucoup évolué depuis Lawrence d’Arabie, et peut-être qu’après tout les bédouins de Ryad, La Mecque et Doha sont des MI5 et CIA maquillés et grimés), nommés Frères musulmans ou autres. Ces illusionnistes, bien qu’ayant promis la privatisation du canal de Suez (quel grand clin d’œil !), n’ont pas été capables, par exemple, en Egypte, de faire que le citoyen chahuteur de la rue s’en sorte mieux qu’avant avec ses soixante dollars par mois : pourquoi la Fed n’imprime-t-elle pas plus de billets ? Le chahut a chassé le touriste et les comptes de la nation ont plongé un peu plus – sauf ceux de l’armée, toujours payée et équipée par l’étranger et donc toujours soucieuse de bien faire. Un peu auparavant, un pauvre ambassadeur américain avait d’ailleurs aussi mal terminé que l’ancien dictateur local. Cet ambassadeur, on l’aura compris, ne faisait pas partie des réseaux, des agences et des élites hostiles qui dirigent notre monde : il pouvait donc être étranglé après avoir été sodomisé au nom d’Allah par les hommes de main de qui de droit. Et la presse a pu s’en prendre aux chrétiens intégristes qui aux Etats-Unis auraient suscité l’ire des frères musulmans en mettant sur le réseau de damnables images islamophobes. Quand on accepte d’être informé comme cela, on peut montrer tout de suite sa gorge au bourreau.

Tout est allé bien sûr en empirant, et je crois comme prévu. On a détruit des pays en finançant et en armant des commandos de tueurs itinérants ; on a en fait surtout chassé des dictatures laïques et stables pour les remplacer par des dictatures anarcho-islamistes susceptibles d’exterminer les minorités chrétiennes, notamment les coptes d’Egypte, notamment les maronites, orthodoxes et catholiques syriens. Nos médias goguenards révélèrent après coup que les chrétiens favorisaient les dictateurs et que par conséquent ils devaient s’attendre à être massacrés par des rebelles entretemps devenus les coqueluches de Park Avenue et des salons germanopratins. La Tunisie que j’ai connue laïque et tolérante est devenue un bastion de l’islamisme, c’est-à-dire du bras armé de l’intégrisme démocratique occidental, pour reprendre l’expression de Baudrillard ; car l’islamisme est le bras armé de l’occident et de personne d’autre : voyez le colonel Lawrence.

Le chaos et la misère qui accompagnent la social-démocratie bien appliquée (dette, plans sociaux, baisse du niveau de vie…) et l’islamisme aux commandes vont susciter une vague de plus en plus énorme d’immigration en Europe. Nous l’avons déjà vu en action après le départ de Ben Ali, à Marseille, sur la côte d’Azur et ailleurs. Comme on ne veut surtout pas s’entendre sur la notion de réfugié, ni sur celle d’immigré, on peut s’attendre – je le dis sans hésiter – à quelques dizaines de millions de nouveaux venus à court terme, qu’il va falloir épouiller, nourrir, soigner, loger, équiper, conseiller, protéger juridiquement et défendre médiatiquement (ce ne sera pas difficile, les candidats abondent) contre une opinion populaire trop résistante et intolérante, pas encore assez flexible, pour rendre l’abominable vocable économique. Il est temps de remplacer ce qui reste de notre peuple inflexible par les robots de la banque HSBC, digne héritière hongkongaise des échoppes opiomanes.

Et c’est ici que cela devient intéressant : prenons l’exemple de l’Allemagne, devenue trop pacifiste à cause de son toujours présent passé prussien ou bien nazi. Eh bien, certains allemands, peut-être bien sur ordre, se sont opposés à ce lâcher de réfugiés venus de Syrie : ils se sont aussitôt fait traiter de néo-nazis. Et la presse allemande a naturellement plaint les malheureux réfugiés pris entre le feu des troupes d’Assad et des chrétiens d’orient (là-bas) et les méchants racistes d’ici, néo-nazis y compris.

Il faut bien comprendre que lorsque l’on est informé et dirigé par des politiciens et des journalistes comme cela, on a du souci à se faire.

Détruire le monde arabe tel qu’il nous été légué par l’indépendance, l’islam de village, le pétrole, les dattiers, le socialisme local, pour le remplacer par le chaos ambiant des monarchies golfeuses est une chose ; mais imposer ce chaos ambiant chez nous au motif qu’il faut être tolérant, amant de l’humanité, généreux et humanitaire en est une autre. Ici on est vraiment face à une des frasques folles de notre élite hostile occidentale en grande méforme. Le  temps n’est pas loin où il faudra quitter ce continent prétendu blanc et cette communauté prétendument chrétienne pour gagner des cieux plus cléments ; ceux de l’Amérique encore latine et de la Bolivie par exemple, pays chrétien et social, indigène et nationaliste (notre rêve en somme !), dont le président a été traité comme un voyou dans un aéroport par nos gouvernements d’opérette sur ordre des agences qui dirigent maintenant l’Amérique en rêvant de la guerre antirusse qui justifiera leur mirobolant budget. Le planton du socialisme français aurait aimé personnellement crucifier le rebelle américain des sévices secrets au nom bien sûr de la démocratie et de la liberté.

La destruction du monde arabe ira donc se prolonger en Europe. C’était écrit.

Car je crois que nos élites hostiles utilisent le monde musulman pour liquider ce qui peut rester de chrétienté dans ce monde et créer le souk social universel et transhumain dont elles rêvent. Dans l’état où nous sommes, nous en rendrons-nous compte ? Vous en rendrez-vous compte, ô vous qui méritez la mort sans le savoir parce que vous êtes des intégristes chrétiens sans le savoir et des molosses du racisme sans le savoir ?

samedi, 31 août 2013

What the Arab Spring Tells Us About the Future of Social Media in Revolutionary Movements 1

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What the Arab Spring Tells Us About the Future of Social Media in Revolutionary Movements 1

 

By Richard A. Lindsey

Ex: http://attackthesystem.com

 

Introduction

 

The Arab Spring spawned a series of revolutionary movements that are unique in that they utilized social media as an effective means to spread information and promote insurgent agendas. This revelation deserves consideration in all future discussions of revolutions and the concepts of ideology, narrative, momentum and unifying motivations. The Arab Spring uprisings are the first collective movements of their kind in the Middle East after the internet and social media revolutions of the late 20th/early 21st centuries, and tactics, techniques and procedures utilized by resistance populations during the Arab Spring may affect future movements. The factors of social media affecting public opinion and international support, rapid dissemination of news, widespread messaging, and the ability of the individual to spread information globally are relatively new phenomena during revolutions. Likewise, regimes and counter-insurgents can implement social media to meet their own agendas in never before seen ways. That the future of revolutionary movements in globalized societies will involve social media is assured, but the degree to which it will is yet to be determined.

 

Phases of Insurgency

 

Before discussing how social media affected the Arab Spring and will affect future revolutionary movements, first it is important to identify how revolutions are phased. There comes a point in any insurgency where it must move beyond the reach of social media, and tangible gains must be made on the ground – positions occupied, personalities deposed, systems replaced, logistics realized, and governments overthrown. Messaging, information, ideology and narrative are only an aspect of a successful insurgency, albeit a truly necessary aspect.

 

U.S. Army Special Forces doctrine identifies three phases of insurgencies: the Latent/Incipient Phase, followed by Guerrilla Warfare, and finally a War of Movement.[i] Drawn from the writings of Mao Tse-Tung, this doctrine admits that although “successful insurgencies pass through common phases of development…not all insurgencies experience every phase…[and] the same insurgent movement may be in different phases in separate [locations].”[ii] The first phase, Latent or Incipient, offers the greatest opportunities for social media as an organizing tool and informational vehicle. During this phase, leadership or organizers of resistance movements must recruit, spread ideology, establish cellular intelligence networks, and develop sources for external support. Social media offers a conduit for communication, and facilitates these activities. Social media cannot conduct the attacks and sabotage, establish the administrations and organizations, or advance the social and economic development that is crucial to the latter phases of an insurgency. As Barrie Axford says in “Talk About a Social Revolution: Social Media and the MENA Uprisings,” “[t]he digital public sphere, if such it is, may increase the number and range of participants but, in terms of outcomes, it could still be argued that bombs, guns, and Apache attack helicopters tip insurrections and win revolutions.”[iii]

 

Nevertheless, the mobilization of ideas and people is a consistent requirement throughout, and clandestine communication can be enhanced with social media. As has been seen in Syria, social media offers a medium for obtaining international sympathy and support for a cause. Propaganda, one of the rebels’ greatest tools, is made easier and more efficient by technology. Furthermore, recruiting new insurgents, traditionally one of the more difficult tasks of an insurgency, is made much easier by social media. As Steven Metz observes in “The Internet, New Media, and the Evolution of Insurgency,” it “takes a special person to become an insurgent, to undertake the per­sonal danger and hardship it entails…[and] finding those rare people was difficult…[but] the Internet and new media greatly increase the ability of insurgents to find the type of recruits they are seeking.”[iv] With the creativity of its users as its major limitation, social media will likely play a larger role in future revolutionary movements for both insurgents and counterinsurgents alike.

 

Information as a Weapon

 

“If you want to liberate [a people], give them the Internet.” – Wael Ghonim, Egyptian Activist[v]

 

The difference between an insurgent, revolutionary, disenfranchised citizen, or terrorist is simply a matter of perspective. Bashar al-Assad would like the world to see the Syrian rebels as terrorists. They would like the world to see al-Assad’s regime as oppressive, criminal and inhumane. Whereas the Syrian regime attempted to control traditional media and frame its message through press conferences, rebels used YouTube and social media to provide real-time footage of the conflict, portraying the regime in a negative light. Axford notes that “[t]he ‘spin’ on images relayed to the outside world by amateur clips sent via cell phone or posted on Facebook became that of innocent civilians gunned down by marauding troops, not desperate times for the forces of law and order.”[vi] Amateur video showed rebels across the region the location of Syrian Army Republican Guard convoys, air assets and checkpoints. The process of information collection and processing known to the U.S. military as Intelligence Preparation of the Battlefield, which is normally conducted by thorough research and includes the mapping of threat composition and disposition, was achieved for the rebels via compiling scores of amateur videos uploaded by hand-held devices. It is this enriched content that makes YouTube one of the most explosive forms of social media, as there is a vast difference in sometime saying what is happening via Twitter or telling you how they feel about it via Facebook and them actually showing you via video. In Syria, disabling the cell network to counter this reality would only play into the rebels hands, but it was this cell network that was being used so effectively against the regime. Thus is the conundrum that social media places into the hands of oppressive or authoritarian regimes. Information has always been a weapon, but now its accessibility and usability is reaching into never before seen realms.

 

In 2012, Alex Choudhary and others compiled hundreds of thousands of tweets concerning Egypt during its 2011 revolution to analyze what “trended,” why it trended, and what the pulse of the nation was. They noted that, overall, “[t]he discussion was marked by strong negative sentiment less cohesive than for other types of Twitter topics,” but that inspirational stories (human interest) constituted over 15% of tweets and general news covered up to 65%.[vii] An overall picture of the Twitter scene in Egypt shows that (a) the population was disenfranchised, (b) they were thirsty for updates on events, and (c) they still cared about personal-level stories during the revolution. Negative tweets about Mubarak’s government, tweets about personal hardship, and tweets about events affecting each dominated Egypt in 2011. Over 5 million Egyptians were on Facebook at the start of the revolution, and the page “We Are All Khaled Said” is credited with aiding youth movements in organizing and facilitating messaging and outreach to other populations, including the 18-day occupation of Tahrir Square.[viii] Statistically, according to Emma Hall, Facebook users in Egypt rose from 450,000 to 3 million in the six months following the revolution, and now stand at 5 million.[ix] In Egypt, the role social media played in the most recent revolution may be dwarfed by the role it plays in the next one, as the population appears to be embracing digital technology.

 

Information can take many weaponized forms, but for the revolutionary simply spreading the occurrence of true events may be advantageous. In both Syria and Egypt, government forces activities directed at population and resources control measures (PRCM) played into revolutionary hands and legitimized the narrative and ideology of the partisans, insurgents, opposition and rebels of those nations. The modern, globalized world is also information-starved, and social media has adapted to this reality. In 2009, Twitter changed its prompt from “what are you doing?” to “what’s happening?” and, as Blake Hounshell says, “[o]ne of the fastest ways to tell whether someone’s not worth following is if they’re still answering that first question.”[x]

 

Another weaponized form of information is propaganda, which stands counter to real-time events in that propaganda may or may not be true. Technology, globalization and social media have altered the propaganda landscape permanently. Dennis Murphy and James White note that:

 

The historical use of information as power was primarily limited to nation-states. Today a blogger can impact an election, an Internet posting can recruit a terrorist, and an audiotape can incite fear in the strongest of nation-states, all with little capital investment and certainly without the baggage of bureaucratic rules, national values (truthful messaging), or oversight.[xi]

 

What social media has done, or at least helped, is to weaponize information down to the individual level. Whether social media facilitates information as a weapon in the form of truth or propaganda for the revolutionary, or terrorist, again is subject to a combination of perspective and reality. What is not up for debate is the access to the world that social media has provided to the individual, and vice versa.

 

Limitations of Social Media in Insurgencies

 

“More than a million people have joined a Facebook page of the Save Darfur Coalition, but few among them have taken any additional action to help those in Sudan.” Tweeting Toward Freedom, Wilson Quarterly[xii]

 

As discussed before, social media cannot replace the physical actions required for successful revolutions, especially in the latter Guerrilla Warfare and War of Movement phases where social institutions require decisive alterations, violence may be necessary, and job titles must change. Daniel Schorr puts it well in his article “Iran’s Twitter Revolution,” saying “[p]erhaps one should not exaggerate the effects of the cyberspace battle in Iran…[t]he beleaguered regime still has the instruments of repression, the guns and the truncheons.”[xiii] Furthermore, social media holds minimal utility during the transition phase of an insurgency into a government. As Jon Alterman notes, “[s]ocial media are not evidently helpful in facilitating political bargaining in constitution-writing processes, and social media have only played a limited role in helping form new political parties.”[xiv]

 

But, social media also has its limitations in the first phases of social movements and revolutions, through a phenomenon Malcolm Gladwell calls “weak ties,” or in other words, the kind of ties that individuals share via social media, as opposed to strong ties characteristic of personal relationships.[xv] Gladwell proposes that weak ties do not lead to high-risk activism, and offers the Civil Rights Movement as an example, saying that activists during the Civil Rights Movement were not participating due to shared ideology, but instead due to a personal connection to the movement, through a friend or number of friends.[xvi] On the other hand, Gladwell notes, “Facebook activism succeeds not by motivating people to make a real sacrifice but by motivating them to do the things that people do when they are not motivated enough to make a real sacrifice,” such as donate an average of 9 cents per person to the Save Darfur campaign.[xvii]

 

This argument offers an interesting counter to the social media proponents – the more high-risk a revolution becomes, the less useful social media will be. For example, Facebook may be enough to sway a representative to vote a particular way on an issue, but not enough to force that representative to resign. Assuming personal risk will first require the prerequisite of a personal investment of some sort, and traditional relationships are the most efficient mechanism through which these ties are realized.

 

Another limitation of social media, along the same lines, is a gap in the level of participation of social media users. One million likes on a Facebook page does not translate into one million mobilized volunteers, or even one million people who agree with the cause of the host. As Blake Hounshell notes, “I’ve also been tweeting about the Arab revolutions, pretty much day and night. Does that make me a revolutionary? Not at all. Despite all the sweeping talk about it, Twitter isn’t the maker of political revolutions.”[xviii] While the Tahrir Square occupation was made possible by Facebook, how many users liked the page or indicated they would be there and then did not show up? Such data may not be possible to calculate, but the gaps between weak ties and high-risk activism and the level of participation in a social movement do exist, and they are a weakness to social media’s application in support of an insurgency.

 

Although trends seem to indicate that more and more individuals will use social media as time passes, there is still the question of exactly how many people utilize social media now. In the Middle East, the images of youthful protesters “taking to the streets” with cell phones in hand and terms such as “the Twitter Revolution” tend to mask the facts that indicate that the Middle East is, in fact, not really using social media. According to the White Canvas Group, who presented to us at Fort Campbell a series of statistics on social media usage, Kuwait has the highest usage rate for Twitter in the Middle East – at 8.13%.[xix] The numbers for the Arab Spring countries are even more alarming: Egypt 0.26%, Tunis 0.10%, Libya 0.07% and Yemen 0.02%.[xx] Ironically, the same presentation claimed that in Libya (where revolution succeeded), Twitter participation decreased by 9.37% during the revolution, as compared to Syria (where revolution has not yet been successful), where Twitter participation has increased by 40.18% throughout. Also, Alterman notes that up to 70% of Egyptians have access to satellite television, meaning that television programs such as Al Jazeera, a 20th century source of information and propaganda, were likely a more important player in the revolution than social media.[xxi]

 

Another limitation of social media in insurgencies is the dynamic of leadership and the internal heading of an insurgency, revolution or social movement. As Metz notes, “[t]he early stages of most insurgencies involve as great an internal struggle as an external one.”[xxii] Thus, what appears to be a strength of social media, the involvement of a multitude of users at the individual level, also presents quite the conundrum – who is in charge? When over 100,000 people of Facebook organize a march into Tahrir Square, what is the overarching theme of the march, is the message unified, what is the most crucial goal that must be accomplished, and how can that march be parlayed into a successful revolutionary act? In societies where internet usage is low, the users are likely to be the natural leaders in that society, or what James DeFronzo calls the “dissident elite.”[xxiii] This may mitigate this limitation to some extent. But, leaderless organization at the lowest levels creates mass movements instead of focused movements, limiting gains of revolutionary activities and providing regimes with more response options and potentially less disastrous consequences. For example, a mass protest may be settled with government concessions, provided that the regime does not retaliate on protestors. Such an event would play into the hands of the regime, which would gain legitimacy in the minds of its constituents – exactly what the revolutionary does not want to happen. At no point during the so-called “Million Man March” in 1995 was the United States government in danger of losing control of its status, despite a mass number of individuals participating in public discourse.

 

Conclusion

 

The Arab Spring ushered in a new age in revolutionary movements, as it was the first string of such movements to incorporate social media in achieving its goals. Insurgencies require development through phases to be successful, and by design social media offers more benefits to insurgencies during the initial phases via facilitation of recruiting, mobilization and informational warfare. Enriched content, such as YouTube, is likely to be the most valuable form of social media to the insurgent in the future, and such content may aid insurgents in generating the international support necessary for their cause to succeed. In societies where social media usage is higher than in the Middle East, different benefits of user-generated content and social networking tools may present themselves.

 

However, social media relies on “weak links,” and historically these weak links do not manifest themselves into high-risk activism. Social media alone does not require, or even encourage, useful involvement in an insurgency or result in any tangible efficacy of insurgent-oriented activities. Social media can only facilitate, not create, the leadership that is necessary for insurgencies to survive and succeed. Ground-level, person-to-person organizing and mobilization, with some level of personal investment being necessary, is still the key contributor to the successful mobilization of insurgent populations. It is also difficult to separate the useful participants of an insurgency from the bystanders via social media alone. As the world continues to globalize and social media usage continues to increase, insurgencies may find new uses for it throughout each of the phases. But, for the time being, the Arab Spring indicates that the environment in which the uprisings occurred affected the outcome of the revolutions more so than social media did.

 

References

 

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TC 18-01. Special Forces Unconventional Warfare. Headquarters, Department of the Army, January 2011.

 

White Canvas Group, “Strategic Seminar in Social Media.” June 11, 2013, Fort Campbell, KY.

 

End Notes

 

[i] TC 18-01. Special Forces Unconventional Warfare. Headquarters, Department of the Army, January 2011, Chapters 2-21 – 2-29.

 

[ii] Ibid. Chapter 2-19.

 

[iii] Axford, Barrie. “Talk About a Revolution: Social Media and the MENA Uprisings.” Globalizations, Vol. 8, No. 5 (October 2011), 682.

 

[iv] Metz, Steven. “The Internet, New Media, and the Evolution of Insurgency.” Parameters, August (2012), 84.

 

[v] Lagerfeld, Steven ed. “Tweeting Toward Freedom.” Wilson Quarterly, Vol. 35, No. 2 (2011), 1.

 

[vi] Axford, Barrie. “Talk About a Revolution: Social Media and the MENA Uprisings.” Globalizations, Vol. 8, No. 5 (October 2011), 683.

 

[vii] Choudhary, Alex, William Hendrix, Kathy Lee, Diana Palsetia and Wei-Keng Liao. “Social Media Evolution of the Egyptian Revolution.” Communications of the ACM, Vol. 55, No. 5 (May 2012), 78-80.

 

[viii] Gaworecki, Mike. “Social Media: Organizing Tool and a ‘Space of Liberty’ in Post-Revolution Egypt?” Social Policy, Vol. 41, No. 4 (2011), 66.

 

[ix] Hall, Emma. “Year After Arab Spring, Digital, Social Media Shape Region’s Rebirth.” Advertising Age, Vol. 83, No. 24 (2012), 10

 

[x] Hounshell, Blake. “The Revolution Will Be Tweeted.” Foreign Policy, Issue 187 (2011).

 

[xi] Murphy, Dennis M. and James F. White. “Propaganda: Can a Word Decide a War?” Parameters, Autumn (2007), 23.

 

[xii] Lagerfeld, Steven ed. “Tweeting Toward Freedom.” Wilson Quarterly, Vol. 35, No. 2 (2011).

 

[xiii] Schorr, Daniel. “Iran’s Twitter Revolution.” New Leader, Vol. 92, No. 3/4 (2009),5.

 

[xiv] Alterman, Jon B. “The Revolution Will Not Be Tweeted.” Washington Quarterly, Vol. 34, No. 4 (2011), 104.

 

[xv] Gladwell, Malcolm, “Small Change: Why the Revolution will not be Tweeted,” The New Yorker, October 4, 2010.

 

[xvi] Ibid.

 

[xvii] Ibid.

 

[xviii] Hounshell, Blake. “The Revolution Will Be Tweeted.” Foreign Policy, Issue 187 (2011).

 

[xix] White Canvas Group, “Strategic Seminar in Social Media.” June 11, 2013, Fort Campbell, KY.

 

[xx] Ibid.

 

[xxi] Alterman, Jon B. “The Revolution Will Not Be Tweeted.” Washington Quarterly, Vol. 34, No. 4 (2011), 111.

 

[xxii] Metz, Steven. “The Internet, New Media, and the Evolution of Insurgency.” Parameters, August (2012), 85.

 

[xxiii] DeFronzo, James. Revolutions and Revolutionary Movements. Boulder: Westview Press, 2011 (4th Edition, Nook version), 26.

 

About the Author

Richard A. Lindsey is an assistant detachment commander in 5th Special Forces Group (Airborne), Fort Campbell, Kentucky, where he has served for the last seven years.

Les attaques chimiques sont un coup monté

Syrie :

"Les attaques chimiques

sont un coup monté"

Ex:
http://www.levif.be/info/actualite/international/syrie-les-attaques-chimiques-sont-un-coup-monte/article-4000384171801.htm?nb-handled=true&utm_medium=Email&utm_source=Newsletter-27/08/2013

En exil depuis 35 ans, l’opposant Haytham Manna, responsable à l’étranger du Comité de Coordination nationale pour le changement démocratique (opposition syrienne non armée), s’oppose avec force à toute intervention étrangère contre son pays. 


haytham-manna-2012-3-8-8-20-28.jpgL’utilisation d’armes chimiques en Syrie pourrait amener les Occidentaux à "punir" le régime. Qu’en pensez-vous ?

HAYTHAM MANNA : Je suis totalement contre, tout comme la coordination que je dirige. Cela ne fera que renforcer le régime. Ensuite, une intervention risque d'attiser encore plus la violence, d'ajouter de la destruction à la destruction et de démanteler un peu plus la capacité de dialogue politique. Le régime est le premier responsable car il a choisi l’option militaro-sécuritaire. Mais comment peut-on parler de guerre contre le terrorisme et donner un coup de main à des extrémistes affiliés à Al Qaeda ? 

Les Occidentaux choisissent la mauvaise option, selon vous ? 

Depuis le début, c’est une succession d’erreurs politiques. Les Etats-Unis, la France et le Royaume-Uni ont poussé les parties à se radicaliser. Ils n’ont pas empêché le départ de djihadistes vers la Syrie et ont attendu très longtemps avant d’évoquer ce phénomène. Où est la démocratie dans tout ce projet qui vise la destruction de la Syrie ? Et pensez-vous que ce soit la morale qui les guide ? Lors du massacre d’Halabja [commis par les forces de Saddam Hussein en 1988], ils ont fermé les yeux. Je m’étonne aussi de voir que les victimes d’armes chimiques sont bien davantage prises en considération que les 100 000 morts qu’on a déjà dénombrés depuis le début du conflit.

Qui est responsable du dernier massacre à l’arme chimique ? 

Je n’ai pas encore de certitude mais nos informations ne concordent pas avec celles du président Hollande. On parle de milliers de victimes, alors que nous disposons d’une liste de moins de 500 noms. On est donc dans la propagande, la guerre psychologique, et certainement pas dans la vérité. Ensuite, les armes chimiques utilisées étaient artisanales. Vous pensez vraiment que l’armée loyaliste, surmilitarisée, a besoin de cela ? Enfin, des vidéos et des photos ont été mises sur Internet avant le début des attaques. Or ce matériel sert de preuve pour les Américains ! 

Pensez-vous qu’une partie au conflit a voulu provoquer les Occidentaux à intervenir ? 

C’est un coup monté. On sait que les armes chimiques ont déjà été utilisées par Al Qaeda. Or l’Armée syrienne libre et les groupes liés à Al Qaeda mènent en commun 80% de leurs opérations au nord. Il y a un mois, Ahmad Jarba [qui coordonne l’opposition armée] prétendait qu’il allait changer le rapport de forces sur le terrain. Or c’est l’inverse qui s’est produit, l’armée loyaliste a repris du terrain. Seule une intervention directe pourrait donc aider les rebelles à s’en sortir… Alors, attendons. Si c’est Al Qaeda le responsable, il faudra le dire haut et fort. Si c’est le régime, il faudra obtenir une résolution à l’ONU. Et ne pas laisser deux ou trois payer fédérer leurs amis, pas tous recommandables d’ailleurs. 

Entre Occidentaux et Russes, quelle position vous semble la plus cohérente ? 

Les Russes sont les plus cohérents car ils travaillent sérieusement pour les négociations de Genève 2 [sensées mettre autour d’une même table le régime et les opposants]. Les Américains ont triché. Deux ou trois fois, ils se sont retirés, au moment où s’opérait un rapprochement.

Une solution politique est-elle encore possible ?

Tout est possible mais cela dépendra surtout des Américains. Les Français se contentent de suivre. Une solution politique est la seule qui permettra de sauver la Syrie. Mais l’opposition armée ne parvient pas à se mettre d’accord sur une délégation. 

Que deviendra Bachar al Assad? 

Il ne va pas rester. Si les négociations aboutissent, elles mèneront de facto à un régime parlementaire. Si du moins on accepte de respecter le texte de base de Genève 2 qui est le meilleur texte, avec par-dessus un compromis international. Mais laissez-moi dire ceci : quand on parle de massacrer des minorités, et que le président fait partie d’une minorité, comment peut-on lui demander de se retirer ou ne pas se retirer ? Aujourd’hui, la politique occidentale a renforcé sa position de défenseur de l’unité syrienne et des minorités. Cela dit, personne ne pourra revendiquer de victoire : la violence est devenue tellement aveugle qu’il faudrait vraiment un front élargi de l’opposition et du régime pour en venir à bout.

François Janne d’Othée

vendredi, 30 août 2013

Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung

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Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung

In Syrien findet ein Weltordnungskrieg statt. Während Medien und Politiker eher verharmlosend vom „Bürger-Krieg“ reden, ist der Konflikt zwischen Regierung und Opposition längst eskaliert. Es ist richtiger Krieg. In ihm geht es um viel mehr als um Syrien. Der Weltordnungskrieg, der in dem Land zwischen Damaskus und Aleppo tobt ist weit komplexer als Revolutionen oder „klassische“, lokale Bürgerkriege, und hat Implikationen auf kontinentaler und sogar globaler Ebene. Eine Studie zum Kampf um die künftige Weltordnung.

Von Roland Christian Hoffmann-Plesch
 
Ex: http://www.eurasischesmagazin.de
   

Die Besonderheiten des Syrienkrieges, die einseitigen Presseberichte, die Peinlichkeit und die unverantwortliche Unparteilichkeit der westlichen Politiker, die Massenhinrichtungen und die Brutalität der Kämpfe, die politreligiöse Motivation und vor allem das Leid der Zivilbevölkerung haben mich dazu gebracht, die vorliegende Mini-Studie zu verfassen. Aleppo 2013 erinnert in seiner Ungeheuerlichkeit und Unmenschlichkeit an Stalingrad 1943. Das ganze Syrien ist eigentlich ein Stalingrad. Die Kriegshetze und die Waffenlieferungen gehen aber weiter. Ich glaube, der Syrienkrieg könnte dennoch paradoxerweise den Beginn einer neuen Ordnung in Eurasien einleiten, einer großräumig organisierten multipolaren Ordnung, die genug stabil sein wird, Aggressionen raumfremder, nichteurasischer Mächte abzuwehren und innereurasische Konflikte friedlich zu lösen.

Außerdem bestätigt dieser Krieg meine These, dass das säkular-rationalistische Projekt der Aufklärung eindeutig gescheitert ist, und dass wir heute eine Rückkehr der Religionen bzw. eine Renaissance der politischen Theologien/politischen Religionen erleben. Kurz: wir befinden uns heute (im positiven und im negativen Sinne) in einem neuen Mittelalter. Wenn unsere säkularisierte, entpolitisierte Gesellschaft die religiösen, politreligiösen oder weltanschaulichen Komponenten nichtwestlicher Gesellschaften weiter ignoriert oder falsch deutet, verkennt sie nicht nur die Natur des Menschen, sondern auch die intimsten Mechanismen einer Gemeinschaft bzw. Gesellschaft.


Zur Person: Christian Hoffmann-Plesch

Dipl. Jur., Dipl. sc. pol. Univ. Roland Christian Hoffmann-Plesch, (LL.M.), wurde 1972 geboren. Er absolvierte Studium der Rechtswissenschaften und Politikwissenschaften (Juristische bzw. Sozialwissenschaftliche Fakultät der Ludwig-Maximilians-Universität und Hochschule für Politik München). Außerdem ein Studium der Religionswissenschaft, Ethnologie, Philosophie und Theologie (als Gaststudent in Bukarest, Jassy, München). Seine rechtswissenschaftlichen Fachgebiete und Schwerpunkte sind Strafrecht, Rechtsphilosophie, Kriminologie/Kriminalpsychologie, Rechtsmedizin, Forensische Psychiatrie, Kriminalistik. Die politikwissenschaftlichen Fachgebiete und Schwerpunktesind Politische Theorie, Staats-, Europa- und Völkerrecht, Internationale Politik.

Hoffmann-Plesch ist Magister der Rechte am Institut für die gesamten Strafrechtswissenschaften, Rechtsphilosophie und Rechtsinformatik (LMU München), Doktorand der Rechtswissenschaften (Thema der Dissertation: „Freiheitsrechte, Minimalstaat, polyzentrisches Recht. Eine Abhandlung zur Rechts- und Staatsphilosophie des Libertarismus“). Er war bis 2005 Anwalt für Strafrecht.

Aktuelle Forschungsgebiete sind: Libertaristische Rechts-, Staats- und Straftheorie, Europäische Sicherheits- und Verteidigungspolitik, Politische Theologie, Mittelalterliche Rechts- und Reichsordnung, Multipolare Weltordnung.

 
 


„Das Freund-Feind-Denken ist eine anthropologische Konstante der Menschheit“

Der Westen wird in solchen Angelegenheiten wie dem Syrienkrieg, der wahhabitisch-sunnitischen Feindschaft, der Balkanisierung des Nahen Osten usw. auch in der Zukunft falsche Entscheidungen treffen, unnatürliche Allianzen schließen und somit seinen eigenen Untergang bereiten. Das Freund-Feind-Denken ist zwar eine anthropologische Konstante, man sollte es jedoch nicht künstlich ernähren und ebenso nicht mit Gewalt auslöschen wollen. Auch die tiefste Feindschaft ist nicht ewig und mit weisen, politisch-klugen und gerechten Entscheidungen kann man sie beenden.

Die Idee für die vorliegende Studie, die im Juli 2013 ergänzt und aktualisiert wurde, ist entstanden während der Arbeit am Projekt „Freund und Feind in der multipolaren Weltordnung. Eine Abhandlung zur Renaissance der Politischen Theologie“ (Hochschule für Politik/Sozialwissenschaftliche Fakultät München, 2012). Die Hauptthese dieser Untersuchung lautet: „Das Freund-Feind-Denken ist eine anthropologische Konstante der Menschheit und der politisch-theologische Komplex ein fester Bestandteil der Rechts- und Staatsgeschichte. Aus diesem Grund kann die Staatenwelt keine entpolitisierte, abstrakt-universale Einheit sein, sondern sie ist und bleibt, was sie immer war: ein konkretes politisches Pluriversum. Folglich wird jeder Versuch, eine unipolare Weltordnung mittels politischen, wirtschaftlichen oder militärischen Druckes zu errichten, früher oder später scheitern. Nur eine multipolare Weltordnung wird weltweit als realistisch und zugleich effizient empfunden, denn nur eine solche Organisationsform wird den Freiheits-, Gerechtigkeits- und Ordnungsvorstellungen der Mehrheit der Völkerrechtssubjekte entsprechen und somit globale Anerkennung finden.“

Geostrategie und Geopolitik für ein neues amerikanisches Jahrhundert

Die USA hingegen versuchen im 21. Jahrhundert die Rolle einer globalen Ordnungsmacht zu übernehmen und mit allen verfügbaren Mitteln eine imperiale Pax Americana zu schaffen. Dieses Projekt der USA für ein unipolares, amerikanisches Jahrhundert unterscheidet sich dabei unter militärischem Aspekt von der US-Strategie im Kalten Krieg. Einerseits versucht Washington durch Missbrauch des Völkerrechts (etwa durch unilaterale Gewaltanwendung unter dem liberal-demokratischen Mantel des humanitaristischen Interventionismus) Länder, die für sie vom großen Interesse sind, zu sichern (zu „demokratisieren“). Andererseits versucht es die Entstehung neuer Großmachtkonkurrenten in geostrategisch wichtigen Regionen zu verhindern. Die USA sind somit die konsequentesten Verfechter einer neuen Weltordnung mittels Empire-Politik ihres militärisch-industriellen Komplexes. Außer ihnen gibt es heute keine andere Großmacht, die explizit ihre imperiale Mission betont und mit allen verfügbaren Mitteln nach der Weltherrschaft greift.

Schachbrett Eurasien

Viele Kritiker des US-Establishments sehen hinter der amerikanischen Außenpolitik der letzten 20 Jahren oft nur wirtschaftliche Interessen, und betrachten die Aggressionen gegen öl- und gasreiche islamische Länder als Wirtschafts- bzw. Ressourcenkriege oder kurz Raubkriege. Das ist jedoch nur ein Teil der Wahrheit: erstens sind die von den USA erlittenen Kriegsschäden größer als ihr Kriegsgewinn, zweitens ist die wirtschaftliche Suprematie kein Endziel, sondern ähnlich wie die militärische, technologische oder kulturelle Überlegenheit nur Mittel zur Erreichung eines höheren Ziels.

Das wichtigste Ziel der USA ist die Sicherung ihrer globalen Macht. Die Macht ist in diesem Kontext unter zwei Aspekten zu verstehen, nämlich unter geopolitischem und ? was in der Literatur wenig beachtet wird ? unter theopolitischem Aspekt. Einerseits wird sie in einem räumlichen, geografischen Sinne als (militärisch-industrielle) Übermacht gegenüber möglichen Konkurrenten verstanden, nach dem Motto: „Die Grenzen des Planeten sind zugleich die Grenzen des US-Empires“. Das Denken über hegemoniale oder imperiale Vormachtstellung in sicherheitspolitisch-militärischen Kategorien (z.B. als globaler Antiterror-Krieg) hat zwangsläufig zur  Renaissance der klassischen Geopolitik bzw. des Geoimperialismus geführt wie die weltweiten amerikanischen Regionalkommandos bezeugen (http://www.defense.gov/ucc/). Andererseits wird die Macht polittheologisch, im Sinne der amerikanischen chiliastisch-messianisch-eschatologischen Vorstellung gedeutet, und zwar als Recht eines von Gott auserwählten Volkes, über die ganze Welt zu herrschen. Nach der Amerikanischen Revolution und der translatio imperii Britannici hat sich bei den Bewohnern der „Neuen Welt“ ein starkes alttestamentarisches und zugleich neoprotestantisches Sendungsbewusstsein entwickelt, das heute in Form von Evangelikalismus und „christlichem Zionismus“ die US-Politik maßgeblich beeinflusst und der ungebrochenen israelisch-amerikanischen Allianz zugrunde liegt.

Die größte Gefahr für die USA kommt heute, laut herrschender Meinung unter Geostrategen und Entscheidungsträgern des US-Establishments, genau wie im 20. Jahrhundert aus Eurasien, das das „Schachbrett“ ist, auf dem der Kampf um globale Vorherrschaft auch in Zukunft ausgetragen wird (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 57). Das oberste Gebot der US-Geopolitik lautet demnach, so George Friedman, Gründer und Leiter von Stratfor, jede Macht zu bekämpfen, die eine Vorherrschaft über Eurasien erlangen könnte. Das ist der Hauptgrund, weshalb die USA Krieg in dieser Region führen, so dass trotz aller menschenrechtlich-demokratischen Rhetorik, wenig Interesse an Frieden in Eurasien bestehe (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 59ff., 165, 180).

Die USA haben jedoch primär nicht die 1945 besiegten europäischen Zentralmächte oder die EU im Visier, zumindest solange die EU oder ihr deutscher Kern sich nicht zu einer von Amerika unabhängigen Supermacht entwickeln, was sich angesichts der gut geplanten und geführten Operationen der US-Geheimdienste in Europa und vor allem in Deutschland leicht nachweisen lassen würde (siehe den jetzigen NSA-Skandal). Amerika hat ein Interesse an neuen oder wiedererstarkten regionalen Einzelakteuren  und Allianzen, die mächtig genug werden können, um die USA militärisch anzugreifen oder ihre politisch-wirtschaftliche Kraft zu schwächen und so ihren Supermachtstatus zu unterminieren. Bekämpfen bedeutet in diesem Kontext nicht, diese Mächte militärisch zu besiegen, sondern ihren Aufstieg zu verhindern, sie zu destabilisieren.

Das erklärt einigermaßen die brutalen, scheinbar irrationalen militärischen Aktionen der USA seit 1990. Es geht nicht um Herstellung von Ordnung, um Stabilisierung der Region ? solche Aufgaben würden die USA ohnehin überfordern ?, auch nicht um militärische Siege, die angesichts der Bedingungen der neuen, asymmetrischen Kriege und der religiösen, jenseitsorientierten Motivation der Gegner nicht mehr möglich sind, sondern um Chaos zu schaffen und die potentielle Gegenmacht zu destabilisieren (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 60f.). In dieser Strategie passt wie gegossen der zivilreligiöse Mythos des weltweiten Terrorismus, den die USA erschaffen haben, um einen permanenten Kriegszustand auf dem gesamten Globus und vor allem in Eurasien zu institutionalisieren. Der sogenannte „Krieg gegen den Terror“ wurde so zu einem säkularisierten Kreuzzug gegen den Islam hochstilisiert, und ist allmählich zum Blankoscheck geworden, auf globaler Ebene militärisch direkt oder indirekt (mittels Verbündeten und Vasallen) zu intervenieren.

Scheinmultilateralismus

Die Entstehung mehrerer regionaler oder globaler Machtpole (Russland, Indien, Iran, China u.a.) ist bereits Wirklichkeit und zugleich eine enorme Herausforderung für die USA, die sich dieser neuen globalen Machtkonstellation mit allen verfügbaren Kräften widersetzen und so den friedlichen Übergang von einer uni- zu einer multipolaren Weltordnung erschweren. Wir erleben heute den wahrscheinlich letzten Versuch des amerikanischen militärisch-industriellen Komplexes, konkurrierende Mächte weltweit auszuschalten, um die Sicherung der globalen Vormachtstellung der USA zu erreichen. Die Interventionen Amerikas (mit oder ohne Hilfe der NATO), sind Teile der amerikanischen Eurasien-Strategie. Sie finden statt in Ländern wie Irak, Jugoslawien, Somalia und Afghanistan. Dazu gehören die ständigen Provokationen gegenüber Russland, Nordkorea oder Pakistan, der Versuch, Europa in „old Europe“ und Neueuropa zu spalten, die osteuropäischen „Orange-Revolutionen“ und der „Arabische Frühling“, sowie nicht zuletzt der (noch) „kalte Krieg“ gegen den Iran, oder die Stellvertreterkriege in Libyen, Syrien, Mali, Sudan usw. Ein wichtiges Element dieser Strategie ist die Multilateralität, die von den USA oft in Anspruch genommen wird, und auch Bestandteil der neuen Doktrin der US Armee ist (http://www.dtic.mil/doctrine/new_pubs/jp1.pdf)

Diese Multilateralität ist eher eine Scheinmultilateralität, denn die Unterstützung der staatlichen und nichtstaatlichen Verbündeten ist kein Selbstzweck, sondern Mittel zum Zweck; kurz: „multilateral, wenn möglich, unilateral, wenn nötig“ (R. Kagan, Macht und Ohnmacht, 2004: 161). Es gibt aber Fälle, wo die USA trotz ihrer Überlegenheit und ihrer Präferenz für unilaterale Lösungen auch andere Mächte und Kräfte auf ihre Seite zu ziehen versuchen, wie die von ihnen geführten Kriege in Eurasien zeigen. Durch Allianzen wie „Anti-Irak-Koalition“ (1991), „Anti-Terror-Koalition“ (2001) oder „Koalition der Willigen“ (2003) haben die USA vor allem versucht, erstens eine imperiale Überdehnung zu vermeiden, zweitens den Gegnern zu zeigen, dass sie für ihre Aktionen eine breite oder gar globale Unterstützung haben und, wo es möglich war, von der UNO legitimiert sind. Drittens dadurch noch mehr Feindschaft und Verwirrung zu stiften, mit schwerwiegenden Konsequenzen, wie die Attentate in Madrid, London, auf Djerba, Bali und anderswo beweisen.

Es gibt auch Fälle, in denen die USA ihre geopolitischen Ziele nicht nur mit Hilfe westlicher Verbündeter, sondern auch durch die Unterstützung bestimmter Kräfte erreichen, die als Feinde Amerikas gelten. Im Libyen-Krieg haben die westlichen Länder trotz ihrer obsessiven Anti-Terror- und Anti-Al-Qaida-Rhetorik entschieden, Al Qaida-Militante in ihrem Kampf gegen den libyschen Machthaber Muammar al-Gaddafi zu unterstützen. Da der neue globale Akteur China, der seine friedliche wirtschaftsimperiale Macht über Afrika ausdehnt, bis zum Ausbruch des Krieges auch in Libyen sehr präsent war, stand Amerika in Verdacht, durch eine scheinbar unvernünftige Libyen-Politik mehrere Ziele auf einmal erreichen zu wollen: Erstens die Vertreibung der chinesischen Firmen aus Libyen und das Stoppen der chinesischen Investitionen in diesem Land, was nach dem Beginn der Krieges auch passiert ist; zweitens die Ausschaltung eines amerika- und israelfeindlichen Staates, (der bis 2006 auf der Liste der Schurkenstaaten gestanden hatte) und somit die Verwirklichung der imperialen geopolitischen und geostrategischen Agenda; drittens die Sicherung des Zugangs zu den libyschen Ölfeldern für US-Konzerne ähnlich wie im Irak.

Aus realistischer Sicht hat Amerika im Fall Libyen doch rational gehandelt, d.h. im eigenen Interesse, und das ist angesichts seiner ungewissen Zukunft als Supermacht nachvollziehbar. China wird seit einigen Jahren als künftige Großmacht und als großer Gegenspieler Amerikas gehandelt. Ebenso wie China können auch Russland, Indien, womöglich die EU, aber auch Regionalmächte wie der Iran (oder eine schiitische Allianz unter Irans Führung), Pakistan, Nordkorea oder gar die Türkei als Störer der geopolitischen Pläne der USA auftreten (einige gelten bereits als solche). Amerika könnte deswegen weiter versuchen, im eigenen Interesse Drittkräfte anzuwerben ? in Mali und Syrien ist das bereits der Fall ?, um unbequeme Länder zu destabilisieren.

Greater Middle East und Syrien

In dieser Divide-et-impera-Logik passt auch das 2003 von Bush-Regierung ins Leben gerufene Projekt eines Greater Middle East (ab 2004 Middle East Partnership Initiative), einem Programm zur Bekämpfung des Terrors und zur Durchsetzung der Freiheit und Demokratie im geopolitischen Großraum von Marokko bis Kasachstan (http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/greaterMEmap.html).

In Wirklichkeit ist Greater Middle East kein neokonservatives Projekt, sondern „imperiale Kontinuität“ (W. Ruf, Der Greater Middle East, in: R. Tuschl, Die Neue Weltordnung in der Krise, 2008: 13ff.). Dadurch versuchen die USA nicht nur sich Zugang zu wichtigen Rohstoffstätten zu verschaffen, sondern auch das „Islamismusproblem“ zu lösen und vor allem die Entstehung einer Ordnungsmacht in diesem Großraum zu verhindern. Mit ihrer Strategie der „kreativen Zerstörung“, der Neutralisierung des Islams durch „Balkanisierung des Mittleren Ostens“ (J. Wagner, Geburtswehen des Mittleren Ostens, 2007: 2f., http://www.imi-online.de/download/IMI-Analyse07-018.pdf) hofft der amerikanische militärisch-industrielle Komplex die strukturelle Machtverteilung so zu ändern, dass die Entstehung einer hegemonialen Großmacht und die Errichtung einer islamischen Großraumordnung (z.B. in Form eines Kalifats oder einer Allianz islamischer Kernstaaten) unmöglich wird; außerdem wird die Stationierung der US-Armee in der Region, so die Rechnung der Geostrategen, alle potenziellen regionalen Mächte abschrecken. Zu diesen Zwecken haben die USA ein Regionalkommando aufgestellt (USCENTCOM), das für den Nahen Osten, Ost-Afrika und Zentral-Asien zuständig ist (http://www.centcom.mil/about-u-s-central-command-centcom).

Wie wichtig diese Region für die US-Pläne ist, zeigt das für Operationen und Management des USCENTCOM erstellte Budget der letzten 3 Jahren (ohne die Finanzierung der Afghanistan-Mission): 2011: 106.631.000 $; 2012: 137.167.000 $ und 2013: 179.266.000 $ (A. Feickert, The Unified Command Plan and Combatant Commands, 2013: 12, http://www.fas.org/sgp/crs/natsec/R42077.pdf).

Die offizielle Mission des USCENTCOM lautet: Zusammen mit nationalen und internationalen Partnern Kooperation zwischen Nationen zu fördern, auf Krisen zu antworten, staatliche und nichtstaatliche Aggressionen zu verhindern oder zu bekämpfen und Entwicklung und Rekonstruktion zu unterstützen, um die Bedingungen für regionale Sicherheit, Stabilität und Wohlstand zu etablieren.

Ein Brennpunkt des Greater Middle East ist Syrien. Das offiziell verkündete Ziel des USCENTCOM ist hier die Verbesserung der regionalen Stabilität und Sicherheit durch die Wiedereingliederung Syriens in den Mainstream der arabischen Welt. Gleichzeitig ist USCENTCOM besorgt wegen der Kontakte, die Syrien mit Iran und proiranischen extremistischen Organisationen (z.B. Hisbollah) unterhält. (http://www.centcom.mil/syria/). Wie der amerikanische Militärspezialist Andrew Feickert in einem Bericht für den US-Kongress schreibt, entwickelt sich der Syrienkrieg zu einem langfristigen, regelrechten Bürgerkrieg, der eine Bedrohung für die regionale Sicherheit und Stabilität sein könnte. Eine militärische Intervention der USCENTCOM, um nationale Interessen der USA in der Region zu schützen, wird nicht mehr ausgeschlossen. (A. Feickert, The Unified Command Plan and Combatant Commands, 2013: 36, http://www.fas.org/sgp/crs/natsec/R42077.pdf).

Dass die USA ein Interesse an Stabilität und Sicherheit in dieser Region hat, ist zu bezweifeln, vor allem wenn man ihr Verhalten gegenüber Syrien beobachtet. Dieses Land ist nach Brzezinskis Definition zwar kein „geostrategischer Akteur“, also ein Staat, der die Kapazität und den nationalen Willen besitzt, über seine Grenzen hinaus (regional oder global) Macht oder Einfluss auszuüben, um den von den USA fixierten geopolitischen status quo zu verändern. Syrien ist jedoch ein „geopolitischer Dreh- und Angelpunkt“, ein Staat, dessen Bedeutung nicht aus seiner Macht und Motivation resultiert, sondern sich eher aus seiner prekären geographischen Lage und aus den Folgen ergibt, die sein Verhalten aufgrund seiner potentiellen Verwundbarkeit bestimmen (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 66f.). Bereits 2004 wurde in einer von Rand Corporation in Auftrag der US Air Force verfassten Studie gezeigt, dass Syrien eine asymmetrische Bedrohung für Israel darstellt, und militärisch im Stande ist, den jüdischen Staat mit Chemiewaffen und den von Nordkorea, China, Iran und Russland gelieferten Raketen anzugreifen (N. Bensahel/D. Byman, The Future Security Environment in the Middle East, 2004: 183).

Außerdem unterhält Syrien gute Beziehungen zu Russland, China und Iran ? von Amerika als geostrategische Akteure betrachtet ?, aber auch zu schiitischen Organisationen wie Hisbollah (die einzige Armee der Welt, die 2006 der israelischen Armee eine empfindliche Niederlage verpasste). In Syrien leben 500.000 palästinensische Flüchtlinge und auch viele Funktionäre der antiisraelischen PLO, die, wenn das Assad-Regime fiele, ihre sichere Heimstätte und den Schutz der Gastgeber verlieren würden. Auch Syriens Grenze zur Türkei spielt eine sehr wichtige Rolle in der US-Geopolitik: der Fall Syriens würde die Türkei, anders als die türkischen Politiker glauben, destabilisieren (siehe das kurdische Problem oder den Vormarsch der salafistischen Dschihadisten in dieser Region), und so die Entstehung einer neoosmanischen Regionalmacht verhindern. Es gibt auch andere Punkte, die, wie später gezeigt wird, Syrien für bestimmte Groß- oder Regionalmächte so interessant macht.

Ende der unipolaren Weltordnung

Trotz des Optimismus der Geostrategen und Politiker, die in millenaristischer Manier über eine goldene amerikanische Ära sprechen, welche nach dem dritten Weltkrieg (sic!) eintreten wird (G. Friedman, Die nächsten hundert Jahre, 2009: 247-257.), scheint die US-Strategie des unipolaren Moments gescheitert zu sein. Nach dem Zerfall der UdSSR haben die USA ihre Chancen verspielt. Die durch ihre militärischen Abenteuer bzw. Wirtschafts-, Finanz- und Ressourcenpolitik angerichteten Schäden sind so groß, dass es unwahrscheinlich ist, dass die Welt ? mit Ausnahme einiger enger staatlicher und privater, transnationaler Verbündeter ? Amerika als einen freiheitlich-demokratischen, wohlwollenden Welthegemon ansehen wird. Angesichts der neuen globalen Herausforderungen ist ebenso fraglich, ob die USA ? trotz ihrer militärischen Überlegenheit ? in der internationalen Staatenwelt als Weltordnungsmacht gelten kann.

USA - von wohlwollender Welthegemonie zum imperialen Weltordnungskampf

Unter politikwissenschaftlichem Aspekt ist ein Welthegemon ein übermächtiger Staat, der als funktionales Äquivalent zu einer supranationalen Weltautorität verstanden wird. Die hegemoniale Steuerung beruht auf der Annahme, dass globale Befolgung von Normen bzw. Regeln nur durch eine hierarchische Organisationsstruktur mit zentraler Sanktionsinstanz gewährleistet werden kann, die aber keine formelle, mit rechtlicher Autorität ausgestattete Instanz ist, sondern eine informelle, primär machtbasierte Quasi-Hierarchie, die die zwischenstaatliche Anarchie unangetastet lässt. Die hegemoniale Weltordnung ist eine faktische, keine normativ verankerte Ordnung (V. Rittberger/A. Kruck/A. Romund, Grundzüge der Weltpolitik, 2010: 306ff.).

Durch folgende Eigenschaften erlangt der Welthegemon Supermacht-Status, d.h. Überlegenheit im Bereich der militärischen, ökonomischen und kulturell-ideellen Ressourcen, ebenso wie Überlegenheit beim Kapitel Einfluss tatsächlicher Politikergebnisse: Erstens ist er in der Lage, internationale Regeln zu generieren und deren Beachtung durch Androhung von Sanktionen, Gewährung oder Entzug von Wohltaten zu erreichen; zweitens hat er die Fähigkeit zu politischer Steuerung und Problembearbeitung in Übereinstimmung mit den eigenen Präferenzen (unter anderen die eigennützige Schaffung bzw. Förderung von Normen, Regeln und Institutionen, die seine Weltsicht reflektieren; drittens stellt ein sogenannter wohlwollender Hegemon öffentliche Güter nicht nur zum eigenen Nutzen, sondern auch zum Nutzen anderer Staaten bereit, wie z.B. die Gewährleistung eines hohen Maßes an internationaler Finanzstabilität und Finanzliquidität, die Gewährleistung von Sicherheit, humanitäre Hilfe usw. (V. Rittberger/A. Kruck/A. Romund, 2010: 307f.).

Die USA waren ein real existierender Welthegemon, der im Kalten Krieg auch als benevolent hegemon gehandelt hat und nach dem Ende der bipolaren Weltordnung noch einen Supermacht-Status hatte. Allerdings ist ihre globale Vorherrschaft heute relativ, unter anderem, weil immer mehr Akteure unabhängiger von US-amerikanischen  hegemonialen Machtstrukturen werden. Außerdem gibt es auch internationale Institutionen, die ohne den Einfluss des US-Welthegemons entstanden oder geplant sind, wie etwa die Eurasische Wirtschaftsgemeinschaft, China-ASEAN-Freihandelszone oder die für 2015 geplante Eurasische Union.

Beim Kapitel Lösung von transsouveränen Problemen stehen die USA nicht gut da ? es besteht die Gefahr der Selbstüberforderung und, wie bereits erwähnt, der imperialen Überdehnung durch Krieg und weltpolizeiliche Aufgaben. Auch wenn sie ein tatsächliches Interesse an globalem Frieden und nicht an alleiniger Weltherrschaft hätten, wären die USA nicht mehr in der Lage, im Alleingang Kriege zu gewinnen, Terrorismus zu verhindern, Bürgerkriegsparteien zu befrieden, transnationale Kriminalität zu bändigen. Für diese Aufgaben brauchen sie immer öfter eine Koalition, private Sicherheitsfirmen, Söldner oder die Hilfe anderer internationaler Akteure. Man beobachtet vor allem nach 2001 auch einen verstärkten chauvinistisch-militaristischen Exzeptionalismus und einen imperialen Egoismus (Stichwort: „nationales Interesse“), die den Status der USA als benevolent hegemon in Frage stellen.

Erwähnenswert sind auch negative Entwicklungen, die bezeugen, dass die USA kein wohlwollender Welthegemon sind: das Ablehnen des Kyoto-Protokolls, die Kampagne gegen die Errichtung des Internationalen Strafgerichtshofs, Aggressionen und Sanktionen gegen arme Länder, Wirtschafts- und Ressourcenkriege, Folter und gezielte Tötungen von (reellen oder potentiellen) Gegnern, Ausspionierung von Partnern, Alliierten und Vasallen. Außerdem hat Amerika einen Postdemokratisierungs- und Oligarchisierungsprozess durchgemacht. Die Legitimation der US-Herrschaft ist problematisch geworden, vor allem weil die Interessen der USA bzw. der gesellschaftlichen Gruppen, die Machtkontrolle ausüben, und die Interessen anderer, wichtiger Welt- oder Regionalakteure selten kongruent sind. Ferner ist insbesondere nach dem 11. September 2001 ein Auseinanderfallen zwischen hegemonialen Entscheidern und den Entscheidungsbetroffenen zu beobachten. Auch werden schwächere Staaten und private Akteure willkürlich ausgegrenzt, was unter dem Aspekt der demokratischen Herrschaftslegitimation eine partizipatorische Lücke verursacht.

Die USA kennzeichnen sich heute durch suboptimale Effektivität, außenpolitische Aggressivität und völkerrechtswidrigen Interventionismus. Sie sind militärisch und wirtschaftlich überfordert, ihre Herrschaftsform kann man nicht mehr als eine klassische freiheitliche Demokratie, sondern als postdemokratische Oligarchie bezeichnen. Somit sind sie heute zu einem Global Empire geworden, zu einer quasiautoritären Macht, die ein imperiales, manichäisches Weltbild verfolgen. Guantanamo, Falludscha und Abu-Ghraib sind nur drei Symbole der gescheiterten US-Politik. (R. Chr. Hoffmann-Plesch, Freund und Feind in der multipolaren Weltordnung, 2012, unveröffentlicht).

Das Projekt für ein neues amerikanisches Jahrhundert hat sich als eine gefährliche Utopie erwiesen. Die USA müssen sich von der Vision einer Pax Americana verabschieden, ihre Außenpolitik ändern und sich zunehmend als Regionalmacht verstehen, andernfalls werden die Folgen ihrer menschenrechts- und völkerrechtswidrigen Handlungen auch in den nächsten Jahrzehnten zum Widerstand gegen und zum Hass auf die USA führen. Stattdessen jedoch halten die USA an ihrem imperialen Projekt fest, sie haben sich von der Vorstellung einer wohlwollenden Welthegemonie verabschiedet und sind in einen nach der klassischen imperialen Strategie geführten Weltordnungskampf gezogen. Dazu gehört es, Absprachen zwischen den Vasallen zu verhindern und ihre Abhängigkeit in Sicherheitsfragen zu bewahren; die tributpflichtigen Staaten fügsam zu halten und zu schützen; dafür zu sorgen, dass Schurkenstaaten sich nicht zusammenschließen (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht,1997: 66f.). Die heutige Staatenwelt ist aber im Vergleich zur unipolaren Weltordnung komplexer geworden. Wir befinden uns am Anfang einer multipolaren Weltordnung, deren Hauptakteure ? darunter Atommächte ? nicht gerade als Freunde der USA gelten (mit Ausnahme der EU, die sich aber allmählich der Vormundschaft Amerikas zu entziehen versucht), und auch keine wirklichen Demokratien sind.

Multipolarität und Großraumordnung

Die USA, die am Beginn des 21. Jahrhunderts noch als Sieger des Kalten Krieges und als einzig gebliebene Supermacht galten, werden jetzt mit allen Wahrscheinlichkeit den Status als alleinige Weltmacht verlieren und die Macht mit anderen global agierenden Kräften teilen müssen. Die sukzessiven geopolitischen Paradigmenwechsel ? von der Multipolarität der ersten Hälfte des 20. Jahrhundert zur Bipolarität des Kalten Kriegs und weiter zur welthegemonialen Unipolarität nach 1990 ?, haben die Staatenwelt radikal verändert und die Koexistenz von verschiedenen Akteuren, wie Staaten, Großräume, Imperien (das noch handlungsfähige US-Empire oder das sich noch in statu nascendi befindliche chinesische Imperium) wieder ermöglicht. Anders als in einem unipolaren System, das sich durch eine hegemoniale oder imperiale Vormachtstellung eines Staates oder Staatenverbundes kennzeichnet, existieren in einem globalen multipolaren System mehrere politisch gleichgewichtige bzw. gleichberechtigte Zentren. Die heutige Weltordnung ist wieder multipolar ? sie besteht aus mehreren Machtpolen, die zwar militärisch und wirtschaftlich nicht gleich stark oder dem amerikanischen militärisch-industriellen Komplex überlegen sind, aber aus der Sicht der USA die unipolare Ordnung fragmentieren und das „amerikanische Jahrhundert“ destabilisieren. Weil geopolitische Machtverlagerungen in der Geschichte immer von Konflikten begleitet waren und ständig zur Entstehung neuer Freund-Feind-Konstellationen geführt haben, erscheinen die heutigen Stellvertreterkriege oder der „Krieg gegen den Terror“ als „militärisch unterfütterte Geopolitik“ (W. Ruf, Der Greater Middle East, in: R. Tuschl, Die Neue Weltordnung in der Krise, 2008: 23).

Die jetzige Ordnung ist nicht nur eine multipolare, sondern auch eine großräumig organisierte Weltordnung, die allmählich die Gestalt eines globalen Systems von Großraumordnungen annimmt. Trotz der Transnationalisierung bzw. Globalisierung des Völkerrechts, der Säkularisierung und Modernisierung, der Verwirtschaftlichung, Entnationalisierung und Entpolitisierung eines erheblichen Teils der Welt, und entgegen den Anstrengungen der USA scheint dieser Trend jedoch unumkehrbar zu sein. Es scheint, dass die Großraumrevolution, die in Eurasien zu beobachten ist, nicht von universalistischen, westlich-säkularen Werten vorangetrieben wird, sondern von partikularen Sozialethiken bzw. Geostrategien und neo-orthodoxen Glaubensbekenntnissen, die in verschiedenen politisch-religiösen/-theologischen Komplexen wurzeln. Das bedeutet für die säkulare euro-atlantische Elite nicht nur harte Konkurrenz, sondern auch das Ende ihres Traums von der Demokratisierung der Welt nach ihrem Ebenbild.

Angesichts dieser Realitäten scheint das neue Jahrhundert keine Epoche universeller Werte, kein Konzert der Demokratien, sondern eine Ära voller Spannungen und Konfrontationen zu sein. Neben China und dem südostasiatischen Großraum, Indien und dem südasiatischen Großraum, Russland und dem nordeurasischen Großraum und dem europäischen Großraum (EU) gibt es auch einen eher kulturell-religiös, als geographisch oder wirtschaftlich-politisch definierten Großraum. In diesem Raum konkurrieren mehrere innerislamische Kräfte, die sich offen bekriegen und so der einzigen außereurasischen Großmacht Amerika indirekt helfen, ihre imperiale Agenda zu erfüllen.

Zwischen puritanisch-dschihadistischer Weltrevolution und panarabisch-nationalistischer Großraumordnung

Die gegenwärtige weltweite Rückkehr der Religionen und die Wiedergeburt des politreligiösen Denkens sind nicht nur Reaktionen auf Säkularisierung, Modernisierung, Globalisierung und den damit verbundenen Identitätsverlust, sondern auch eine übergeschichtliche Kontinuität. Wie das Beispiel der islamischen Welt zeigt, haben die verschiedenen konfessionellen Strömungen die sukzessiven Wellen von säkularen Ideologien westlicher Prägung überdauert. Diese weltimmanenten universalistischen Kräfte konnten sich (in reiner Form) gegen den geschichtstranszendierenden islamischen „Volksgeist“ nicht durchsetzen und wurden einem schnellen Entartungsprozess ausgesetzt. Ursprüngliche Kräfte, die zur intimsten Struktur der Geschichte gehören, wie gemeindliche, religiöse oder regionale Formen der gesellschaftlichen Organisation gelten als Anzeichen für eine übergeschichtliche Kontinuität (A. Al-Azmeh, Die Islamisierung des Islam, 1996: 35).

Heute betrachten immer mehr arabische und nichtarabische Moslems den Islam als das einzige Antidot gegen den Verfall der umma und als Waffe gegen deren interne, nichtfundamentalistische, meist staatliche bzw. externe, antiislamischen Feinde betrachten. Mittelalterlich anmutende Begriffe wie dschihad, mudchahid, chilaafa, schahid, murtad, kuffar, scharia usw. sind aus der heutigen Alltagssprache der jungen Muslime nicht mehr weg zu denken. Wir erleben jetzt eine islamische Weltrevolution, die sich unter dem Druck und zugleich mit Hilfe des westlichen, vorwiegend amerikanischen militärisch-industriellen Komplexes zu einem globalen Dschihad entwickelt hat. Wie das Beispiel des heutigen Syriens zeigt, ist die muslimische Welt polarisiert. Sie bewegt sich zwischen verschiedenen, teilweise gegensätzlichen Ordnungsvorstellungen, die von einem puritanisch-wahhabitischen Kalifat bis zum klassischen national-arabischen Staat und weiter zum westlich orientierten säkularen Staat und zu einer christlich-islamischen, im „sakralen eurasischen Imperium“ (A. Höllwerth, Das sakrale eurasische Imperium des Aleksander Dugin, 2007) eingegliederten Großraumordnung reicht. Eine entscheidende Rolle bei der von Innen- und Außenfaktoren vorangetriebenen Neu- oder je nachdem Unordnung der islamischen Welt spielt die Scharia, das einzige Rechtsystem im Islam, das von puritanisch-konservativen Kräften anerkannt wird.

Islamische Rechtstheologie

Die seit den 1970er Jahren verstärkten „Re-Islamisierung“ der islamischen Länder war nicht nur ein politreligiösen, sondern auch ein rechtspolitisches bzw. rechtstheologisches Problem. Der Versuch, westliche politische Systeme zu übernehmen, wurde im Islam vom Versuch, westliche Rechtsauffassungen und Rechtssysteme zu übernehmen, begleitet. Beide Versuche sind gescheitert, weil die pro-westlichen Kräfte keine Rücksicht auf die eigene islamische Tradition und Mentalität genommen haben. Die westlichen Ideologien wurden nach dem Ende des Kolonialismus von der Mehrheit der Moslems als unislamisch bezeichnet. Die Vorstellungen von Demokratie und Menschenrechten stellen auch heute nach Ansicht der führenden Islamisten eine „bösartige Ideologie“ dar, eine „neue säkulare Religion“, die nun vom Neo-Kolonialismus unter der US-Führung propagiert wird (A. Al-Azmeh, Die Islamisierung des Islam, 1996: 171).

Ein wichtiger innerislamischer Streitpunkt ist die Scharia. Die primären Quellen dieses Rechtssystems sind der dem Propheten Mohammed offenbarte Koran und die Sunna, die Summe der gesetzlich verbindlichen Äußerungen, Handlungen und Bestätigungen Mohammeds. Das Recht der urislamischen Gemeinschaft war allerdings unsystematisch und heterogen. Es gab keine Scharia im späteren Sinne und deshalb keine kohärente islamische Rechtsordnung. Neben allgemeinen koranischen Richtlinien und zum Teil konkreten ad-hoc-Regelungen gab es auch vorislamische Regeln des Zusammenlebens. Allmählich hat sich die Auffassung etabliert, dass ein Rechtssystem sich nicht auf Rechtsnormen und -entscheidungen stützen sollte, die aus vorislamischen Traditionen und pragmatischen Überlegungen hergeleitet werden, sondern dass sie ausschließlich auf der Religion des Islams zu fußen habe.

So wurden der Koran und die Sunna zu Kriterien der Rechtsschöpfung. Kurze Zeit später wurden auch der Analogieschluss und der consensus prudentium als sekundäre Rechtsquellen akzeptiert, diese kommen aber nur in bestimmten Fällen zum Einsatz, die im Koran und in der Sunna nicht behandelt werden, und sie sind nur im Geiste des Korans und der Sunna anzuwenden) (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 416ff.).

Die verschiedenen islamischen Rechtsschulen entstanden später aus mindestens zwei Gründen. Erstens wurde der Islam während seiner Ausbreitung über andere Völker und Länder mit fremden Lebensformen konfrontiert. Da ein wahrer Muslim erstens nicht nur verbal bezeugen muss, dass es keinen Gott außer Allah gibt und Mohammed sein Gesandter ist, sondern auch im Einklang mit dem Koran und der Sunna leben sollte, hat der Islam versucht, eine Antwort auf die verschiedenen Traditionen, Gesellschaftsformen und Rechtssysteme der neu islamisierten Völker zu finden. Zweitens war die Scharia keine Schöpfung einer gesetzgeberischen islamischen Herrscherschicht; Grundlegung, Ausgestaltung und Bewahrung der Scharia lagen in den Händen von Privatleuten, die in Abwesenheit einer hohen weisungsgebenden Autorität trotz prinzipieller Übereinstimmung verschiedene juristische Auffassungen vertraten. Aus einer praktischen Notwendigkeit und wegen Meinungsverschiedenheiten entstanden verschiedene islamische Rechtsschulen, die anders als im säkularen Westen keine abstrakte Rechtssysteme, sondern auf konkreten, gesellschaftlich verankerten Praktiken beruhende Lebensformen waren. Somit wurde der Islam wie eine „Gesetzesreligion“ strukturiert. Aus diesem Grunde entstand eine andere, nicht-juristische Strömung, nämlich die islamische Mystik. Die Mystiker haben sich zwar nie völlig außerhalb der Scharia bewegt, aber sie haben die Auffassung vertreten, dass die äußere juristische Form der Religion und des gesellschaftlichen Lebens nicht genügt, den Menschen Gott nahe zu bringen. Man brauche auch eine innerliche und innige Annäherung, die zusammen mit der Besinnung auf koranische Frömmigkeit und der islamischen Rechtstheologie die Grundlagen der islamischen Mystik stellen. (A. Falaturi, Die Scharia ? das islamische Rechtssystem, in: Bayerische Landeszentrale für politische Bildungsarbeit, Weltmacht Islam, 1988: 97f.)

Sunniten vs. Schiiten

Die Unstimmigkeiten zwischen „Mystikern“ bzw. gemäßigten Moslems und „Legalisten“ und die Unterschiede zwischen verschiedenen Rechtsschulen sind bis heute spürbar. Vor allem zwei islamische Rechtschulen sind für die heutigen Umwälzungen im Islam und ganz besonders in Syrien wichtig. Die erste, die nach Ahmad ibn Hanbal (780-855) genannte Schule der Hanbaliten, war eine sunnitische, konservativ-dogmatische Reaktion auf rationalistische Tendenzen in der islamischen Gesellschaft. Für Hanbaliten gelten nur die Traditionen des Propheten und der ersten Prophetengefährten und keine anderen Rechtsmittel (später wurde jedoch auch der „richtige Analogieschluss“ angewandt). Die Zustimmung zur Vergangenheit und die Idealisierung der urislamischen Gemeinschaft spielen eine große Rolle, moralisches, privates Urteilen hat viel mehr Gewicht als theologische und juristische Kontroversen und Problemlösungen. Die Hanbaliten streben die Fortführung des Anstrengung (idschtihad), alle Gesetze aus dem Koran, der Sunna und dem Konsens der ersten Generationen ? der ehrwürdigen, rechtschaffenen Vorfahren (salaf as salih) ? abzuleiten und, wenn nötig, neu zu interpretieren (selbstverständlich nur im Geiste des Koran und der Sunna).

Aus dieser dogmatisch-konservativen Rechtsschule entstanden später pietistische Strömungen wie die Muslimbrüder oder die islamischen Revolutionäre. Eine radikale Richtung ist der Wahhabismus, der auf der Lehre von Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792) gründet und die Rückkehr zum reinen Islam der Urgemeinschaft des 7 Jahrhundert fordert, in der Allahs Alleinherrschaft entscheidend war. Nach der wahhabitischen Lehre dürfen die Muslime den Propheten nicht anbeten oder vor dem Schrein der Heiligen beten, sie dürfen auch den Kult der heiligen Gräber nicht pflegen. Es gilt die strikte Einhaltung der Scharia und alle nichtsunnitischen (etwa Schiiten, Sufis, Alawiten) und gemäßigte sunnitische Muslime sind als Häretiker und Apostaten zu behandeln. Die Lehre dieser Sekte ist in Saudi-Arabien Staatsdoktrin und zugleich Wegweiser für Millionen Muslime weltweit, die unter dem Namen „Salafisten“ eine umstrittene, aber wichtige Rolle in den heutigen Auseinandersetzungen im Islam und vor allem in Great Middle East spielen.

Die zweite, für den heutigen Islam wichtige Rechtsschule ist die der Schia, die Schule der Muslime, die den Imamen folgen, die aus der Familie des Propheten stammen. Anders als die Sunniten glauben die Anhänger des Vetters und Schwiegersohns Mohammeds, Ali ibn Abi Talib, dass dieser der rechtmäßige Nachfolger des Propheten war. In der schiitischen Imamatstheorie werden der Koran und die Sunna als Rechtsquellen anerkannt, den Konsensus der Gelehrten wird aber durch den Entscheid des „unfehlbaren Imams“ ersetzt. Nach seinem Verschwinden lebt der 12. Imam Muhammad ibn Hasan al-Mahdi in der Verborgenheit und wird vor dem Ende der Welt erscheinen. Anstelle der sekundären Rechtsquellen hat diese Schule die Vernunft als Rechtsmittel aufgestellt. Außerdem sind in die schiitische Strömung mehrere fremde Vorstellungen, darunter altpersische und gnostische Elemente, eingeflossen. Das hat die Feindschaft der Sunniten, insbesondere der Wahhabiten zugezogen; die sunnitischen Theologen bezeichnen die Schiiten (ebenso die Alawiten, die im Syrien an der Macht sind) als unislamisch, ungläubig oder heidnisch. Die Schule spielt jedoch eine wichtige Rolle in Iran, wo sie die Grundlagen der Theokratie stellt, in Irak, Libanon, Syrien usw.

Politreligion, Sektarismus, die Wirkung der Scharia: Der Fall Syrien

Zwischen diesen zwei großen, sich im Konflikt befindlichen Strömungen des Islams haben Millionen Alawiten, Drusen, Kurden, Sufis, Christen, moderate Sunniten und Angehörige anderer Glaubensrichtungen versucht, ein friedliches Miteinander zu schaffen. In Syrien etwa war das aufgrund einer von Staat und Partei vertretenen quasisäkularen, auf christlich-islamische und multiethnische Koexistenz fixierte Politreligion möglich, allerdings unter dem Druck einer autokratischen, nationalen und sozialistischen Staatsordnung, die jede rein religiöse und ethnische Partei verbot. Hafiz al-Assad ? Baschars Vater und Präsident bis 2000 ?, hat Syrien fast 30 Jahre mit eiserner Hand regiert und aus einem chronisch instabilen Land ein „Bollwerk der Stabilität“ (N. Bensahel/D. Byman, The Future Security Environment in the Middle East, 2004: 177) gemacht. Der Preis dafür war jedoch groß: Repression, Vetternwirtschaft, die Macht in der Hand der autoritären Baath-Partei und der mit ihr verbündeten Kleinparteien, die Vorherrschaft der alawitischen Minderheit über die sunnitische Mehrheit usw. Im Zuge des sogenannten „Arabischen Frühlings“ kam es ab März 2011 zu Protesten gegen die Assad- Regierung, die sich im Laufe der Monate zu einem regelrechten Krieg entwickelten, der aber mehr nach Stellvertreter- als nach Bürgerkrieg aussah und später gar zur einer leisen, von außen gesteuerten Invasion raumfremder Kräfte geworden ist. Die Kritiker der Assad-Regierung, die einen friedlichen Übergang zu einer freiheitlich-demokratischen Ordnung anstrebten, wurden relativ schnell von bewaffneten inländischen Oppositionellen und ausländischen, meist salafistischen Dschihadisten verdrängt. Obwohl die Anti-Assad-Opposition ein breites Spektrum aufweist ? darunter der Syrische Nationalrat (SNC), das Nationale Koordinierungskomitee für Demokratischen Wandel (NCC), die Freie Syrische Armee (FSA), die Lokalen Koordinierungskomitees (LCC), der Rat für die Syrische Revolution, die Syrische Beobachtungsstelle für Menschenrechte, Al Kaida/Al-Nusra-Front und „freischaffende Kämpfer“, Syrische Muslimbruderschaft usw. ? kann man leicht feststellen, dass die (sichtbaren) Hauptakteure der Opposition die Kämpfer der FSA und die Dschihadisten sind.

Die post-koloniale Gruppierung der Nationalstaaten in der Region des Nahen Osten wurde als ein „regionales Subsystem innerhalb der Weltordnung“ gedeutet (B. Tibi, Krieg der Zivilisationen, 1995: 89). Man kann weiter gehen, und dieses Subsystem, ob in panarabischer oder in lokalnationaler bzw. sozial-nationaler Gestalt, als eine rudimentäre, aber für kurze Zeit vielversprechende regionale Ordnung bezeichnen, die auf dem guten Weg zu einer stabilen, unabhängigen oder im Sinne Carl Schmitts „völkerrechtlichen Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte" war. Der Traum aller panarabischen, lokalnationalen und sozialistischen Militanten von einer starken überkonfessionellen arabischen Einheit im Großraum Naher Osten ist durch die chaotischen Ereignisse in Libanon, Irak, Ägypten, Palästina und heute Syrien ferner gerückt. Die Bevölkerung dieser Region befindet sich heute, wenn man das aktuelle Beispiel Syriens betrachtet, zwischen einem politreligiösem Abwehrkampf, der von überwiegend nichtfundamentalistischen nationalen, teilweise auch sozialistischen bzw. moderat-islamischen Kräften organisiert wird und einem großräumig ausgedehnten gesetzesreligiösen Dschihad, der von verschiedenen radikalen Gruppierungen militärisch geführt wird.

Auf der Seite der Anhänger der quasisäkularen, national-etatistisch orientierten Politreligion kämpfen direkt oder indirekt einige eurasische Verbündete Syriens, wie Russland, Iran, Hisbollah/Libanon, China und Kräfte aus dem Irak; auf der Seite der Anti-Assad-Opposition kämpfen neben syrischen Oppositionellen schariagläubige Dschihadisten, „Gotteskrieger“ aus afrikanischen, arabischen, kaukasischen, westeuropäischen Ländern und neuerlich aus Pakistan und Afghanistan. Sie werden hauptsächlich von salafistisch-wahhabitischen Kräften finanziert und in den Kampf gehetzt. All das mit großzügiger moralischer, politischer und logistischer Unterstützung euro-atlantischer Akteure, die ohne Rücksicht auf Verluste die Balkanisierung des islamischen Großraums zu beschleunigen versuchen. Die oppositionelle bzw. sektiererische Gewalt und die staatliche Antwort auf diese haben bis jetzt mehr als 100.000 Menschenleben gefordert und Syrien in eine Trümmerlandschaft verwandelt.

Abgesehen von Interessen fremder, nichtislamischer Mächte in Syrien und in Great Middle East muss man an dieser Stelle erwähnen, dass der innerislamische Konflikt ohne den Scharia-Streit zwischen den gemäßigten und den radikalen Moslems die jetzige Intensität nicht erreichen hätte können. Aber die Wirkung der Scharia in der islamischen Geschichte ist weit über die konkrete Anwendung hinausgegangen. Erstens ist sie genau wie seine Vertreter (Privatakteure, keine Herrscher) unabhängig geblieben und den historischen Ereignissen nicht angepasst; sie wurde immer als der „Codex der islamischen Idealforderungen“ verstanden. Zweitens war die Scharia auch unter „quantitativem“ Aspekt wirkungsvoll, wie die Ausdehnung ihrer Kompetenz auf alle Bereiche menschlichen Handelns beweist. Drittens kann man die „(Re-)Aktivierbarkeit“ der Scharia als Wirkungsmöglichkeit nennen, die aufgrund des idealen Charakters dieses Gesetzes zeit- und ortsunabhängig gefordert werden kann. (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 432ff.) Man kann folglich die buchstabengetreue Umsetzung der Scharia und somit auch die gesetzesreligiöse Forderung des Dschihad zum Programm von konservativ-dogmatischen Bewegungen machen, was spätestens seit dem Afghanistankrieg (2001) bzw. dem Irakkrieg (2003) und verstärkt heute in Syrien zu beobachten ist.

Was Syrien betrifft, kann man sagen, dass mit der endgültigen Machtergreifung der alawitischen Minderheit (1970) der Konflikt mit den Sunniten, und vor allem mit den Wahhabiten vorprogrammiert war. Diese konnten sich nach 1970 auf eine mittelalterliche fatwa des sunnitischen Rechtsgelehrten Ibn Taymiyya ? Begründer der „politischen Theologie des muslimischen Bürgerkrieges“ (D. Diner, Politische Theorie des Bürgerkrieges, in: J. Taubes, Religionstheorie und Politische Theologie 3, 1987: 238) ? berufen. Dieser gemäß verdienen die syrischen Alawiten als Abtrünnige exkommuniziert,  gemäß der Scharia die Todesstrafe. Für Ibn Taymiyya waren sie aufgrund ihrer esoterischen, schiitisch-sufischen Religion und der allegorischen Auslegung der Scharia „schlimmer als Juden, Christen und Heiden“. Außerdem wurden sie aufgrund ihrer Kollaboration mit den Kreuzrittern und der Ablehnung der ersten drei Kalifen als Verräter angesehen.

Nationalstaat oder supranationales Kalifat?

In einer Ramadan-Botschaft des zentralen Medienbüros von Hizb-ut-Tahrir (die international agierende schariagläubige „Partei der Befreiung“) wird am 09.07.2013 verlautbart: „Möge Allah in diesem Monat der Monate die Unrechtherrschaft Assads und seinesgleichen zu Grunde richten und an ihrer statt das Kalifat errichten, auf dass das Licht des Islam erneut die Welt erstrahlen lässt. Amin!“ (http://www.kalifat.com/). Das ist keine bloße Rhetorik, sondern ein Beispiel für die gegenwärtige Renaissance der mittelalterlichen Kalifat-Vorstellung, die vor allem von puritanischen Sunniten wieder aktiviert wird. Die heutigen Konflikte im Islam haben nicht nur mit Glauben, politreligiösen Überzeugungen oder Sektarismus zu tun, sondern auch mit konkret-politischen Ordnungsvorstellungen. Die islamische Geschichte zeigt, dass die „Wir-Gruppen“ im Islam ihre Identität nicht an die Existenz eines über ihnen stehenden Nationalstaats, sondern an ethnischen (z.B. die Kurden in Syrien, der Türkei, im Iran und Irak) oder sektiererischen (z.B. die Schiiten im Iran, Irak, Libanon) Partikularitäten binden.

Die islamistische Erhebung richtet sich nicht nur gegen Feinde und Abtrünnige des Islams, sondern auch gegen den arabischen Nationalstaat als eine Institution, die nicht auf dem islamischen Boden gewachsen, sondern unter der Parole „Vom Gottesreich zum Nationalstaat“ aus dem Ausland importiert wurde. (B. Tibi, Krieg der Zivilisationen 1995: 72ff., 83). Die heutigen islamischen Fundamentalisten wollen diesen Prozess umkehren, die Parole lautet jetzt: „Vom Nationalstaat zum Kalifat“. Was in Syrien passiert hat also auch mit der Ablehnung säkularer, gemäßigt islamischer oder als unislamisch bezeichneter Ideologien sowie Staats- bzw. Lebensformen zu tun. Der Aufstieg der Alawiten im Militärapparat und in der Politik stellte für sunnitischen Pietisten „die höchstmögliche negative Steigerung des sakral verworfenen Zusammenhangs der Barbarei“ dar, ein „Amalgam von arabischem Nationalismus, Militärherrschaft und Säkularismus“, all dies eingebunden in einer „apostatischen ethnischen Minderheitenherrschaft“ (D. Diner, Politische Theorie des Bürgerkrieges, in: J. Taubes, Religionstheorie und Politische Theologie 3, 1987: 241). Der Idee des Nationalstaates bzw. der panarabischen Großraumordnung wird heute die Vorstellung eines supranationalen Kalifats und einer fundamentalistischen Großraumordnung mit Interventionsverbot für schariafeindliche bzw. -ignorante Mächte entgegengesetzt.

Der Islamismus ist zwar auch ohne liberale, nationalistische und sozialistische Komponenten staatskonstitutiv, wie der Iran beweist, die frommen Schariagläubigen jedoch lehnen die Idee des Staates als eine westliche Institution ab und verstehen die Gründung eines panislamischen Kalifats als heilige Pflicht. Anhand des Falls Syrien, der mittlerweile als Schulbeispiel gelten könnte, kann man die drei Merkmale des sunnitisch-fundamentalistischen Dschihadismus erkennen, die an die Merkmale der Globalisierung ? Multikulturalität, Transnationalisierung, Entterritorialisierung ? erinnern, und die dschihadistische Strömung als eine für das 21. Jahrhundert taugliche Weltanschauung erscheinen lassen: seine „multikulturelle Verfasstheit“, seine „transnationale Organisierung“ und seine „entterritoriale Gemeinschaftsvorstellung“ (S. Huhnholz, Dschihadistische Raumpraxis, 2010: 113).

Der Syrienkrieg als Weltordnungskrieg

Teil 2 der Analyse "Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung"

Von Roland Christian Hoffmann-Plesch
   

Zurück zu Syrien: Warum ist gerade dieses Land so umkämpft? Warum ist Syrien sowohl für nichtislamische als auch für radikalislamische Kräfte so wichtig?

Syrienkrieg als Weltordnungskrieg

Mairead Maguire, nordirische Friedensnobelpreisträgerin (1976), hat als Leiterin einer Friedensdelegation Libanon und Syrien (1.-11. Mai 2013) auf Einladung der „Musalaha Versöhnungs-Bewegung“ besucht. Gestützt auf viele autorisierte Berichte und eigene Untersuchungen stellte sie fest, dass in Syrien kein herkömmlicher Bürgerkrieg, sondern ein Stellvertreterkrieg mit schwerwiegenden Verletzungen des internationalen Rechts und des humanitären Völkerrechts stattfindet. Dieser Krieg wird im Auftrag fremder Mächte geführt, die zur Erreichung eigener Ziele ungefähr 50.000 ausländische dschihadistische Kämpfer trainieren und finanzieren: „Diese Todesschwadronen zerstören systematisch die staatliche Infrastruktur Syriens (Elektrizitäts-, Öl-, Gas- und Wasserwerke, Hochspannungsmasten, Krankenhäuser, Schulen, öffentliche Gebäude, historische Kulturstätten und sogar religiöse Gebäude). Darüber hinaus ist das Land überschwemmt mit Heckenschützen, Bombenlegern, Agitatoren, Banditen. Sie operieren mit Aggressionen und Geboten der Scharia und berauben so die syrische Bevölkerung ihrer Freiheit und Würde. Sie foltern und töten diejenigen, die sich weigern, sich ihnen anzuschließen. Sie haben eigenartige religiöse Überzeugungen, die ihnen ein gutes Gewissen selbst beim Begehen grausamster Taten, wie dem Töten und Foltern ihrer Gegner belassen. Es ist gut dokumentiert, dass viele dieser Terroristen ständig unter einem Aufputschmittel wie Captagon stehen. Das allgemeine Fehlen von Sicherheit zeitigt das schreckliche Phänomen der Entführungen für ein Lösegeld oder zum Erzeugen politischen Drucks.“ (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html)

Der Syrienkrieg ist wahrlich kein klassischer Bürgerkrieg, sondern vielleicht ein für die Zukunft Eurasiens entscheidender Weltordnungskrieg, in dem Mächte und Kräfte kämpfen, die unterschiedliche geopolitische bzw. geostrategische und wirtschaftliche Interesse und zum Teil völlig entgegengesetzte religiöse und weltanschauliche Überzeugungen haben.

Geostrategischer Krieg

Der Krieg wird so radikal geführt, dass er bereits als totaler Krieg gelten kann. Die ausländischen Dschihadisten werden durch einige mächtige Staaten geschützt, was ihnen einen hohen Grad an Verantwortungslosigkeit gewährt, die sie ungestraft zu abscheulichen Grausamkeiten gegen unschuldige Zivilisten ermutigt. Wie Mairead Maguire zeigt, wird selbst das Kriegsrecht nicht respektiert, sodass viele Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit begangen werden (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html).

Warum sind euro-atlantische Akteure so sehr an Syrien interessiert? Wie oben erwähnt ist Syrien kein geostrategischer Akteur, der den von den USA fixierten geopolitischen Status quo verändern kann, sondern ein geopolitischer Dreh- und Angelpunkt, ein Staat, dessen Bedeutung sich aus seiner geographischen Lage ergibt. Laut US-General Wesley Clark gab es bereits im November 2001 einen Plan für eine Fünf-Jahres-Kampagne gegen sieben islamische Länder: Irak, Libanon, Libyen, Iran, Somalia, Sudan und Syrien (M. Chossudovsky, Ein „humanitärer“ Krieg gegen Syrien?, 2011, http://www.globalresearch.ca/ein-humanit-rer-krieg-gegen-syrien/26944). Auch der französische Ex-Außenminister Roland Duma bestätigt die Information, dass der Syrienkrieg lange geplant war (http://www.globalresearch.ca/former-french-foreign-minister-roland-dumas-west-was-preparing-attack-on-syria-before-crisis-started/5341296). Es gibt mindestens vier Gründe, die für den Syrienkrieg als geostrategischem Krieg sprechen:

Erstens die geographische Lage: Syrien liegt in der „heißen“ Mitte des Greater Middle East und hat Grenzen mit Libanon, Jordanien, Israel, Türkei, Irak und auch Zugang zum Mittelmeer. Es ist somit der ideale Platz für geopolitische „Schachbewegungen“ und geostrategischen Konfrontationen. Wer Syrien kontrolliert hat eine direkte Grenze zu Israel. Wenn die Kontrolle von einer israelfeindlichen Macht ausgeübt wird, ist die Sicherheit Israels in Gefahr. Wenn im Gegenteil eine israelfreundliche Macht die Kontrolle über Syrien übernimmt, dann ist ein Teil der israelischen Grenze geschützt, Libanon wird isoliert und die Verbindung zwischen Hisbollah und Iran unterbrochen. Wenn diese Macht auch ein euro-atlantisches Nato-Mitglied ist, dann wird Syrien zusammen mit dem Nato-Land Türkei und dem Nicht-Nato-Verbündeten Jordanien einen Sicherheitsgürtel um Israel (das einzige im westlichen Sinne demokratische Land in der Region) bilden und zugleich die russisch-chinesisch-iranische Präsenz in der Region minimieren. Nur die Grenze zu Ägypten würde weiter eine Gefahr darstellen, zumindest solange in Kairo keine israelfreundliche Macht herrscht.

Zweitens die israelfeindliche Einstellung und das asymmetrische militärische Potential: Als Folge seiner geographischen Lage und der klaren antiisraelischen Orientierung seiner jetzigen Regierung gilt Syrien als gefährlich. In der Resolution des US-Repräsentantenhauses zur Verantwortung Syriens für die Wiederherstellung der Souveränität des Libanons aus dem Jahr 2003 (http://www.govtrack.us/congress/bills/108/hr1828/text) wird behauptet, dass Syrien passiv oder aktiv in Verübung von Terrorakten involviert ist, sicheren Hafen für mehrere terroristische Gruppen bietet und mit Hilfe Irans Unterstützung für Terrororganisationen leistet (Hisbollah, Hamas, Islamischer Dschihad in Palästina, Volksfront zur Befreiung Palästinas samt Hauptquartier) (Sektion 2: 1-5). Außerdem werden hier auch die ständigen Raketenangriffe erwähnt, die Hisbollah mit Hilfe Syriens und Irans auf Israel verübt (Sektion 2: 12, 14, 15), und die chemischen, biologischen und ballistischen Waffen, die einem asymmetrischen Krieg gegen Israel dienen könnten, sowie die russisch-syrische Zusammenarbeit auf dem Gebiet der zivilen und vermutlich militärischen Nukleartechnik (Sektion 2: 16-24). Nicht zuletzt wird auch die syrische Unterstützung der antiamerikanischen Rebellen, die im Irak Wiederstand leisten, betont. (Sektion 2: 30-34). Syrien soll unter anderem aufhören, sein Militärarsenal zu erweitern und antiisraelische Terrororganisationen und Rebellen, die im Irak US-Soldaten töten, zu unterstützen (Sektion 5: (d) 1, 3, 4).

Drittens die Bildung gefährlicher Allianzen: Syrien hat sehr gute Beziehungen mit drei mächtigen eurasischen Akteuren ? Russland, China, Iran ? die besondere geopolitische und geostrategische bzw. wirtschaftliche Interessen in der Region haben und somit an der Erhaltung des jetzigen status quo in Syrien interessiert sind. Russland hat im Nordwesten von Syrien, in Tartus, einen Stützpunkt, der zu einer dauerhaften russischen Marinebasis für nuklear bewaffnete Kriegsschiffe umgebaut wurde (aufgrund der Kämpfe vorübergehend geräumt). Die militärisch-technologische Kooperation mit dem Assad-Regime macht aus Syrien Russlands Brückenkopf und Bollwerk im Nahen Osten, wo Russland und seine eurasischen Geostrategen/-politiker mit Hilfe Chinas und in Absprache mit dem Iran als Ordnungsmacht aufzutreten versucht. Russland schützt Syrien, und man kann sagen, der Kreml bestimmt in diesem Moment das diplomatische Geschehen und zusammen mit der Hisbollah und dem Iran auch den militärischen Kampf um Syrien. Syrien scheint für diese eurasischen Mächte die eigentliche rote Linie zu sein. China unterstützt den syrischen Abwehrkampf nicht nur aus weltanschaulichen, wirtschaftlichen oder geostrategischen, sondern auch aus pragmatisch-innenpolitischen Gründen: China wirft den muslimischen Uiguren terroristische Verbindungen nach Syrien vor, wo sie als Mitglieder der Ostturkestanischen Muslimischen Bewegung auf der Seite der sunnitischen Fundamentalisten kämpfen. Diese Kämpfer, so die offizielle Begründung, seien eine große Gefahr für die Integrität und Sicherheit des chinesischen Staates. Über die geostrategische Bedeutung der syrisch-iranischen Allianz genügt hier nur einen Satz: Der Weg der US-Armee, der Nato und der israelischen Zva haHagana nach Iran führt durch Syrien.

Viertens die Eurasien-Strategie der USA: Wie oben erwähnt, versuchen die USA starke eurasische Regionalmächte (Einzelakteure oder Bündnisse) direkt oder indirekt zu destabilisieren, damit sie nicht genug stark werden können, um ihren Supermachtstatus zu unterminieren.

Weltanschauungskrieg

Der Syrienkrieg ist auch ein Weltanschauungskrieg, auch wenn in der westlichen Presse und den außenpolitischen Statements der euro-atlantischen Regierungen darüber nichts zu hören ist. Auch die Strategen der USCENTCOM glauben, dass die Gründe für Syriens innen- und außenpolitische Aktionen anders als im Falle Irans eher aus kurzsichtigen Berechnungen als aus einer tief verankerten Ideologie stammen (http://www.centcom.mil/syria/).

Das entspricht nicht der Realität, sondern ist ein Versuch, die Ursprünge des Konflikts zu verschleiern, Assad als machtgierigen Diktator und die pro-syrischen Kräfte als fanatische Unterstützer des Staatsterrorismus darzustellen. Dass Assad kein Demokrat ist, ist klar. Die Wirklichkeit sieht aber ein bisschen anders aus. Nach dem Untergang des Osmanischen Reiches intensivieren sich in Syrien wie auch in anderen Provinzen des besiegten Reiches panarabisch-nationalistische Bestrebungen zu Unabhängigkeit und Selbstbestimmung. Panarabismus, der unter anderem eine Reaktion auf den jungtürkischen Panturanismus war, gewinnt immer mehr Anhänger. Die Herausbildung politischer Identitäten in dieser Epoche erfolgte im Spannungsfeld panarabischer und territorial orientierter, syrischer bzw. libanesischer Loyalitäten sowie arabisch-islamischer Strömungen, die sich entgegen der Meinung der heutigen Salafisten einander im Einzelfall nicht unbedingt ausschließen. Zum Beispiel sah der Großmufti von Jerusalem große Ähnlichkeiten zwischen den Grundsätzen des Islams und denen des Nationalsozialismus: Bejahung des Kampfes und der Gemeinschaft, das Führerprinzip und der Ordnungsgedanke, die hohe Wertung der Arbeit. A. El-Husseini, Rede an die 13. Freiwilligen Gebirgsdivision der Waffen SS „Handschar“, Junges Forum 3, 2004: 46).

1920 beschlossen die alliierten Siegermächte des Ersten Weltkrieges mit Billigung des Völkerbundes die Neuaufteilung des besiegten Osmanischen Reichs. Frankreich erhielt bis 1943 das Mandat für Libanon und Syrien. Nach der osmanischen Erfahrung und unter dem Druck der Franzosen haben sich die syrischen Nationalisten radikalisiert und neben dem Panarabismus auch faschistische und nationalsozialistische Elemente adoptiert. Vor allem der Nationalsozialismus bot bei der Suche nach einer neuen, rein syrischen gesellschaftlichen Ordnung einen möglichen Anknüpfungspunkt (G. Nordbruch, Nazism in Syria and Lebanon, 2009). Bereits 1932 wurde die Syrische Sozial-Nationalistische Partei (SSNP) unter der Sonnenrad-Swastika-Flagge gegründet. Ihr Gründer und Führer, der christlich-orthodoxe Journalist Antun Sa’ada, war germanophil und Anhänger des Dritten Reiches. Er verstand die syrische Nation als eine fruchtbare Mischung von Kulturvölkern wie Sumerer, Kanaaniter, Phönizier, christliche und islamische Araber. Seiner nationalistisch-pansyrischen Auffassung nach gehörten das heutige Syrien, der Libanon, die türkische Provinz Hatay, die Gebiete des ehemaligen Palästina einschließlich Israel, Jordanien, Irak und Kuwait in einem Großsyrien (Bilad al-Sham) vereinigt.

Die Prinzipien der SSNP lauten: Erstens: Syrien gehört den Syrern; zweitens: Die syrische Frage ist eine eigenständige nationale Frage, die unabhängig von anderen nationalen Fragen zu lösen ist; drittens: Die syrische Frage ist die Frage der syrischen Nation und des syrischen Vaterlandes.; viertens: Die syrische Nation ist die Einheit des syrischen Volkes, die sich seit der Vorgeschichte herausgebildet hat; fünftens: Das syrische Vaterland ist das physische Milieu, in dem die syrische Nation sich entfaltet hat; sechstens: Die syrische Nation umfasst eine einheitliche Gesellschaft; siebtens: Die national-soziale Renaissance Syriens schöpft ihre Energien aus den Fähigkeiten der syrischen Nation und ihrer politischen und kulturellen Geschichte; achtens: Das Allgemeininteresse Syriens steht über jedem anderen Interesse.

Dazu kommen noch einige Reformprinzipien des syrischen Sozial-Nationalismus wie Trennung von Staat und Religion; allen Klerikern ist es untersagt, sich in die nationale Politik und nationale Rechtsprechung einzumischen; alle Schranken zwischen den verschiedenen Religionen und ihren Sekten sind aufzuheben; die Aufhebung des Feudalismus und eine nationale Organisation der Wirtschaft werden vorgegeben; dazu gehört auch der Aufbau einer starken Armee, die sich wirksam an der Schicksalsbestimmung der Nation und des Vaterlandes beteiligen kann. (B. Tibi, Vom Gottesreich zum Nationalstaat, 1991: 184f.)

1947 wird Michel Aflaq, ein römisch-katholischer Lehrer, der ebenfalls germanophile und dazu ein glühender Hitler-Anhänger war, eine zweite panarabische Partei gründen, die revolutionär-säkulare, nationalistische, sozialistische und anti-israelische Baath-Partei. Diese Partei wurde von begeisterten Anhängern in vielen islamischen Ländern gegründet: 1949: Palästina, 1951: Libanon, 1952: Irak, 1954: Jordanien, 1956: Bahrain, 1958: Südjemen, 1964: Sudan, 2011: Tunesien.

Im Geiste dieser zwei verwandten Strömungen wurden Generationen von Syrern und anderen Arabern erzogen. Im Geiste der pansyrischen, sozial-nationalistischen, baathistischen Weltanschauung wurde auch die jetzige syrische politische Elite erzogen, die den Traum vom Großsyrien auch im 21. Jahrhundert nicht aufgegeben hat (http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Syrisch-baathistisches_Hegemonialstreben.png).

Die Allianzen mit anderen arabischen, europäischen oder asiatischen Kräften und Mächten erscheinen in diesem Sinne als natürlich. Die Mischung zwischen Nationalismus und Sozialismus ist eine typisch eurasische Strömung, die auch heute als Staatsdoktrin in Ländern wie Russland, China und eben Syrien gilt. Die Gegner dieser Weltanschauung sind einerseits die wahhabitisch-salafistischen Akteure wie Saudi-Arabien oder Katar, die eher religiös, als ideologisch denken, andererseits die USA (und einige Verbündete und Vasallen) und Israel, die nach den Erfahrungen mit dem Dritten Reich genau wissen, wie leicht nationalsozialistische Lösungen ganze Völker begeistern und zu wie viel politischer und militärischer Machtakkumulation diese führen können.

Auch Syriens Verbündete deuten diesen Krieg als Weltanschauungskrieg. Aus einer russisch-eurasischen Perspektive bildet der Islam keine geopolitische Einheit. Die Position Russlands gegenüber dem Islam ist sowohl religiös als auch geopolitisch begründet und erklärt seine Parteiname für Syrien. Aleksander Dugin, der russische politische Philosoph des Neo-Eurasismus, erklärt die pro-syrische, pro-schiitische und -alawitische Position Russlands, wie folgt. Einerseits gibt es den „eurasischen Islam“ im Iran, im Libanon usw., d.i. der schiitische und sozialistische Islam, der Sufismus, der syrische Alawismus, im Allgemeinen der mystisch-traditionalistische, kontemplative, vielfältige und tiefe Islam. Dieser Islam ist der Freund Russlands und der christlichen Orthodoxie. Andererseits gibt es den wahhabitisch-salafistischen Islam in Saudi-Arabien, den radikal-sunnitischen Islam in Pakistan usw., die ähnlich wie im puritanischen Calvinismus auf einer reinen Lehre beruhen. Der puritanische Islam lehne die Beschaulichkeit und die Multipolarität ab, so Dugin, und zwinge allen eine monotone, rein ritualistische, primitive Praktik auf. Er sei „atlantistisch“ und pro-amerikanisch und somit ein Feind Russlands (A. Höllwerth, Das sakrale eurasische Imperium des Aleksander Dugin, 2007: 491f.).

Religionskrieg

Die Religion spielt im Syrienkrieg eine wichtige Rolle. Er ist unter anderem ein Religionskrieg. Die Ursachen der Feindschaft zwischen den puritanischen Sunniten und den anderen Islamgläubigen liegt, wie bereits gezeigt, weit zurück und ist eine Konstante der islamischen Geschichte. Im Fall Syrien wurde diese Feindschaft vom autokratischen baathistischen Regime jahrzehntelang im Zaun gehalten. Was heute passiert ist eine relativ neue Entwicklung. Das dschihadistische Netzwerk in Syrien hat den militanten Islamismus als seine Ideologie in zwei Hauptphasen adoptiert und etabliert:

Eine vor-revolutionäre Phase, die 2003 mit dem Irakkrieg begann und stark von der Al-Qaida-Ideologie und -Rhetorik beeinflusst wurde. Syrien war ein wichtiger Durchgang für viele ausländische Kämpfer, die in Irak infiltriert wurden. Später haben libanesische Dschihadisten mit Hilfe von Abu Musab Al-Zarqawi und der Unterstützung einiger Nachbarländer die Verantwortung für die Logistik und die militärische Arbeit in Syrien übernommen. Der Dschihadist Zarqawi war der Al-Qaida-Statthalter im Irak und sunnitischer Eiferer, der seine militärischen Operationen und Enthauptungen theologisch begründete (V. Trimondi/V. Trimondi, Krieg der Religionen, 2006: 442).

Die revolutionäre Phase nach Beginn der Unruhen 2011, in der das Netzwerk der salafistischen Dschihadisten vorwiegend aus radikalen Sunniten besteht, die verschiedenen Gruppen beigetreten sind, welche nach dem Beginn der „Revolution“ gegründet wurden. Diese blutige Phase ist durch Stadtguerilla-Taktik und Terror-Techniken gekennzeichnet. (N. Benotman, The Jihadist Network in the Syrian Revolution, 2012: 1f., http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/publications/free/the-jihadist-network-in-the-syrian-revolution.pdf).

Das Ziel der religiösen Eiferer ist die Gründung eines Kalifats, am besten ohne Hilfe nichtislamischer Mächte. Aufgrund der offenen westlichen Unterstützung der Gotteskrieger in Libyen oder Syrien versuchen die Kalifat-Anhänger sich vom Westen zu distanzieren. In einer Verlautbarung von Hizb-ut-Tahrir zum Beschluss der Arabischen Liga (09.11.2011) warnen sie die Gotteskrieger: „Die vom Westen und seiner Gefolgschaft ausgestreute Behauptung, dass eine Veränderung nur mit westlicher Hilfe möglich sei, darf euch nicht hinters Licht führen. Es ist eine von ihm erfundene Lüge, die der Wahrheit keinesfalls entspricht. Durch eure Aufrichtigkeit gegenüber Allah, euren friedlichen Aufstand und die Unterstützung der freien Soldaten seid ihr in der Lage den Tyrannen zu beseitigen, das Gesetz Allahs einzuführen und das Rechtgeleitete Kalifat zu gründen. Denn ihr seid das Zentrum der Stätte des Islam, wie es der Prophet sagte: ‚Wahrlich, das Zentrum der Stätte des Islam ist Al-Sham.‘ Welch großartiges Zentrum ist es!“ (http://www.kalifat.com/).

Bilad Al-Sham ist Groß-Syrien, Levante, das Ziel der Nationalisten und zugleich der Kalifat-Anhänger. Auch die wichtigste salafistische Kraft in Syrien, der Al-Qaida-Ableger Al-Nusra-Front, erklärt unmissverständlich die Ziele der Gotteskrieger: die Gründung eines islamischen Staats in Syrien und die Errichtung eine Kalifats in Bilad Al-Sham (N. Benotman/R. Blake, 2013: 3f., http://www.quilliamfoundation.org/wp/wp-content/uploads/publications/free/jabhat-al-nusra-a-strategic-briefing.pdf).

Es geht in diesem Religionskrieg jedoch nicht nur um Syrien, sondern auch um die schiitische Landbrücke, die den Iran mit dem überwiegend schiitischen Irak und dem von schiitennahen Alawiten geführten, säkularen Syrien und mit der schiitischen Hisbollah im Libanon verbindet. Die Zerstörung dieser Achse ist für das wahhabitische Saudi-Arabien heilige Pflicht.

Wirtschaftskrieg

Der Syrienkrieg ist schließlich auch ein Wirtschaftskrieg. Syrien ist zum Dreh- und Angelpunkt zweier Pipeline-Projekte geworden, die für den energiepolitischen Einfluss auf Europa entscheidend sind. Das erste Projekt ist der Versuch des erdgasreichen Katars, Zugang zum europäischen Markt via Saudi-Arabien und durch die zwischen der Türkei und Österreich geplante Nabucco-Pipeline zu bekommen. Das Projekt, das 2008 wegen des saudischen Vetos scheiterte, brauchte auch die Zustimmung Syriens. Eine Alternative war eine Pipeline-Route durch den Persischen Golf und den Irak, dafür brauchte man aber wieder die Zustimmung Syriens, Nachbar der Türkei. Stattdessen hat Syrien 2011 Verträge mit dem Iran geschlossen, die den Transport von iranischem Erdgas durch den Irak nach Syrien und weiter nach Europa ermöglichen. Laut iranischen Medien hat Iran im Herbst 2012 mit dem Bau von 225 km der 1500 km langen Pipeline im Wert von drei Milliarden Dollar begonnen (http://german.irib.ir/nachrichten/wirtschaft/item/217411-pipeline-f%C3%BCr-iranisches-gas-von-irak-und-syrien-nach-europa).

Das zweite Projekt ist das bisher gescheiterte Projekt Nabucco, das von der EU mit Billigung der USA geplant wurde, um die starke Stellung des Hauptlieferanten Gazprom zu verringern. Aus Mangel an Lieferanten ? Russland hat für sein Konkurrenzprojekt South-Stream mehrere große Gaslieferanten gewonnen ? wurde Nabucco nicht, wie geplant, gebaut. Außerdem wollte Iran kein Gas an Nabucco liefern, sondern, wie erwähnt, eine eigene Pipeline über den Irak nach Syrien und weiter nach Europa bauen, was zusammen mit der russischen South-Stream zum Scheitern der euro-atlantischen Pläne geführt hat. Syrien ist also ein Erdgas-Knotenpunkt, eine Niederlage des Assad-Regimes hätte demnach positive Folgen für diejenigen Länder, denen die Entscheidungsträger in Damaskus wichtige Öl- und Gasgeschäfte versaut haben. (H. Müller, Schlüssel zum Energiemarkt Europas, 2012 http://www.preussische-allgemeine.de/nachrichten/artikel/schluessel-zum-energiemarkt-europas.html).

Das ist einer der Gründe, warum auch Katar fundamentalistische Islamisten in Syrien großzügig unterstützt und warum die ökonomischen Sanktionen gegen Syrien nicht nur von der EU und den USA, sondern auch von Mitgliedern der Arabischen Liga durchgeführt werden.

Die Sanktionen der UNO und der EU wie auch das strikte Embargo drängen Syrien an den Rand des gesellschaftlichen Zusammenbruchs. Wie Mairead Maguire schreibt, „ignoriert das Netzwerk der internationalen Medien diese Realitäten und ist versessen darauf, zu dämonisieren, zu lügen, das Land zu destabilisieren und noch mehr Gewalt und Widerspruch anzuheizen“ (M. Maguire, In Syrien findet ein Stellvertreterkrieg im Auftrag fremder Mächte statt, 2013, http://www.ag-friedensforschung.de/regionen/Syrien/maguire.html). Laut Syriens Vizewirtschaftsminister Kadri Jamil unterstützen China, Russland und Iran massiv die syrische Wirtschaft und die von Sanktionen schwer betroffenen Währung (http://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/china-iran-russland-helfen-syriens-wirtschaft-und-waehrung-a-908330.html).
Wenn Assad den Krieg gewinnen wird, werden seine Alliierten aller Wahrscheinlichkeit nach beim Wiederaufbau des Landes helfen. Im Falle einer Niederlage und eines Regimewechsels ist jedoch nicht ausgeschlossen, dass die USA einen „Marshall-Plan“ für Syrien vorschlagen werden, der die Übernahme der totalen Kontrolle über die syrische Industrie und Wirtschaft ermöglichen würde.

Syrien und die Zukunft Eurasiens. Zwei Modellszenarien

Was in Syrien passieren wird steht in den Sternen. Man kann mit Sicherheit sagen, dass sowohl die „Architekten“ als auch die in Kampfhandlungen involvierten Kräfte ebenso unwissend sind, wie wir die Beobachter. Sie wissen nur das, was passieren sollte, nicht aber was tatsächlich passieren wird. Exakte Prognosen gibt es in solchen Fällen nicht. Mögliche Szenarien können nur dazu dienen, Gedankenexperimente zu konstruieren, um theoretische Erkenntnisse zu gewinnen. Mehr nicht.

Permanente Weltrevolution und eurasischer Bürgerkrieg

Ein Szenario könnte so aussehen: „In Syrien, der Türkei, dem Irak und dem Iran kommt es zu einem Aufstand der Kurden; der Irak, der Libanon, Syrien, die Türkei und der Jemen zerfleischen sich in religiös motivierten Kriegen; Algerien, Ägypten, Libyen, Pakistan und der Sudan werden durch Instabilität und Kämpfe zermürbt; Berber und Araber bekämpfen sich gegenseitig in ganz Nordafrika; Zentralasien wird von Unsicherheit und politischer Instabilität heimgesucht; ein Krieg im Südkaukasus verzehrt Georgien, Armenien und die Republik Aserbaidschan; unter den Kaukasusvölkern kommt es im Nordkaukasus zu Aufständen gegen die Russen; der Persische Golf wird zu einer Zone der Instabilität, und die Beziehungen Russlands zur Europäischen Union und der Türkei befinden sich auf einem Tiefpunkt. (M. Nazemroaya, Israelisch-amerikanisches Drehbuch, 2012, http://www.globalresearch.ca/israelisch-amerikanisches-drehbuch-erst-die-zerschlagung-syriens-dann-die-zerschlagung-des-rests/5312994).

Dieses düstere Szenario erinnert an Trotzkis „permanente Weltrevolution“ und wäre natürlich im Sinne der Feinde des Islams und zugleich der Feinde Eurasiens der Beginn eines (vielleicht permanenten) eurasischen oder gar globalen Ausnahmezustands oder Bürgerkriegs. Aber wir wollen nicht so weit gehen, wir bleiben in Syrien. Was passiert, wenn die nationalen syrischen Kräfte den Krieg verlieren?

Dann werden die Salafisten, falls sie die stärkste Kraft unter den Siegern sind und die Westmächte ihren Segen geben, einen islamischen „Kernstaat“ (S. P. Huntington, Kampf der Kulturen, 1998: 331-334. gründen, der die Funktion von C. Schmitts „Reich“ (C. Schmitt, Völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, 1991: 49-73) erfüllen wird, das die Idee der Großraumordnung ausstrahlt und den Plan des idealen, gottgewollten supranationalen Kalifats und einer fundamentalistischen staatstranszendierenden Großraumordnung mit Interventionsverbot für schariafeindliche und -ignorante Mächte im Levante verkündet und materialisiert. Die anderen oppositionellen Kräfte werden wahrscheinlich wenig Widerstand leisten und entweder den Raum verlassen oder sich dem Kalifat anschließen.

Und wenn die gemäßigten Kräfte obsiegen?. Dann würde ein neuer Konflikt, womöglich ein Bürgerkrieg zwischen ihnen und den Fundamentalisten, die ihren Dschihad weiter führen werden, vorprogrammiert sein. Bereits jetzt wurden Kämpfe zwischen FSA und Al-Nusra-Front gemeldet, die zu einem Krieg im Krieg führen könnten.

Im ersten Fall, der der interessanteste ist, werden Syriens Verbündete, vor allem die drei großen eurasischen Akteure Russland, China und Iran, nicht tatenlos zusehen, schließlich wird die rote Linie eindeutig überschritten. Es könnte zu einem offenen Krieg zwischen Kalifat-Anhängern und „Eurasiern“, zu einem neuen Weltordnungskrieg kommen, in dem die USA nicht wagen werden, sich einzumischen und Israel nur für einen Verteidigungskrieg bereit wäre.

Es besteht auch die Möglichkeit, dass die Fundamentalisten ihre Angriffe trotz westlicher Unterstützung auch gegen die USA und Israel richten, was kein neues Szenario wäre ? die von USA unterstützen anti-sowjetischen islamischen Freiheitskämpfer in Afghanistan haben das gewagt. Was die US-Geostrategen von damals nicht richtig begriffen haben, war die religiöse Dimension des Kampfes. Für die Guerilla-Kämpfer war der Krieg in Afghanistan nicht nur ein nationaler Befreiungskrieg – unter ihnen befanden sich außer Afghanen auch Moslems verschiedener Rassen und Ethnien ?, sondern ein religiöser Krieg, den sie als heilig bezeichneten und mit dem islamischen Dschihad identifizierten.

Anders als die nutzenmaximierenden Amerikaner, die in diesem Krieg nur die Chance sahen, der konkurrierenden Sowjetmacht eine empfindliche Niederlage beizubringen, empfanden die Dschihadisten ihren Kampf gegen die kommunistischen Invasoren ähnlich wie den Kampf gegen jede andere islamfeindliche Macht nicht als bloße ideologische Auseinandersetzung, sondern als eine heilige Mission. Die Geschichte könnte sich trotz westlicher Unterstützung und CIA-Steuerung auch heute wiederholen, und zwar nicht nur bezüglich der USA, sondern auch Israel. Man darf nicht vergessen, dass die Demütigung und die hohen Verluste an Menschen und Material, welche die US-Armee in Irak und Afghanistan erlitten, zum größten Teil das Werk der radikal-sunnitischen oder einfach islamistischen Gotteskrieger sind. Im Geiste der Mudschahidin, die früher das sowjetische „Reich des Bösen“ besiegt haben, wollten diese Dschihadisten auch den Kampf gegen den „großen Satan“ USA gewinnen.

Eurasische Großraumordnungen mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte

Assad gewinnt in diesem Moment die Oberhand, dank der logistischen Unterstützung verbündeter Mächte und der Kampffähigkeiten der Hisbollah und der iranischen und russischen Freiwilligen, die auf seiner Seite kämpfen. Wenn die Lage sich stabilisiert und die syrische Armee immer mehr Terrain gewinnt, werden die Dschihadisten immer weniger Freiraum haben. Dann werden die USA aller Wahrscheinlichkeit nach einen militärischen Einsatz erwägen, um den „Rebellen“ mehr Handlungsraum zu verschaffen. Was passiert aber, wenn Assad und die pro-syrischen Kräfte das Land schneller in den Griff bekommen und sogar den Krieg gewinnen?

Erstens wird Assad als Verteidiger des syrischen Volkes mit all seinen Ethnien und Konfessionen gefeiert und seine Position an Legitimation gewinnen, denn Souverän ist der, der über Ausnahmezustand entscheidet (C. Schmitt, Politische Theologie, 1996: 14). Er wird also nach diesem Krieg stärker sein als je zuvor. Die schiitische, sozial-nationalistische Landesbrücke würde mehr Kontur gewinnen, vielleicht als eine klassische Allianz, als Bündnis oder mit russischer und chinesischer Unterstützung gar als Großraumordnung mit Interventionsverbot für bestimmte raumfremde Mächte.

Nicht ausgeschlossen ist auch eine auf Freiwilligkeit und völkerrechtlicher, ethnischer und religiöser Gleichheit beruhende „großsyrische“ oder levantinische Alternative, eine über den Staat hinausgehende Großraumordnung (wie die EU), die zusammen mit Israel und ohne die „Mediation“ raumfremder Mächte eine friedliche, möglichst gerechte Lösung für das Palästina-Problem zu suchen versucht. Das wäre ein Beweis dafür, dass die erfolgreiche Verteidigung eines Raumes gegen als unschlagbar erscheinende raumfremde Mächte möglich ist. Das könnte der Anfang vom Ende des von den USA initiierten Balkanisierungsprozesses im Nahen Osten sein. Das könnte auch das Ende der subtilen, geheimdienstlichen Steuerung des Dschihadismus, den einige euro-atlantische Akteure zur Kriegshetze missbrauchen und so unschuldige Nichtfundamentalisten sowie auch gut gemeinte, rechtgläubige Gotteskämpfer in den sicheren Tod schicken.

Man vergisst aber, dass die syrische Tragödie Teil des Schicksals Eurasiens als „Schauplatz des global play“ (Z. Brzezinski, Die einzige Weltmacht, 1997: 54) ist, d.h. auch des Schicksals der Gegner Syriens. Man nimmt auch nicht wahr, dass die Welt auf Dauer keine politische, geschweige denn eine religiöse Einheit oder Zweiheit sein kann. Sie wird immer, d.h. auch in scheinbar unipolar-imperialen Zeiten, eine in Großräumen organisierte politische und religiöse Vielheit. bleiben. Nach dem amerikanischen unipolaren Moment ist die „Pluralität von Großräumen“ (C. Schmitt, Staat, Großraum, Nomos, 1995: 499) bereits Realität.

Großmächte, die ihre Träume von Welthegemonie zu verwirklichen versuchen und daran scheitern sind ein Beweis dafür, dass die Dialektik aller menschlichen Macht nicht grenzenlos ist, sondern unfreiwillig die Kräfte fordert, die ihr eines Tages, die Grenze setzen werden. Vielleicht sind diese Kräfte die Dschihadisten und das scheiternde Empire die USA.

Vielleicht wären diese Kräfte ohne den negativen Einfluss nichtislamischer Kräfte in ihrem Bestreben, ein Kalifat zu errichten, erfolgreicher. Schließlich gibt es auch im Rahmen des islamischen Rechts Toleranz und Flexibilität: zwischen den Kategorien „Pflicht“ und „Verbot“ gibt es in der Scharia auch Kategorien wie „empfehlenswert“, „indifferent“ und „tadelnswert“ (aber nicht strafbar) (A. Noth, Die Scharia, das religiöse Gesetz des Islam, in: W. Fikentscher/H. Franke/O. Köhler, Entstehung und Wandel rechtlicher Traditionen, 1980: 430). Auch den Dschihad darf man nicht nur als einen physischen, militärischen Kampf deuten, ? zumindest solange keine islamfeindliche Macht ein islamisches Land angreift ?, sondern auch als eine geistig-metaphysische Anstrengung, als eine permanente Auseinandersetzung des Gläubigen mit dem Bösen in sich und in der Welt. Rein rechtstheologisch waren die Kriege in Irak und Afghanistan Aggressionen gegen den Islam und ein „dschihadistischer Bündnisfall“. Den Syrienkrieg kann man aber mittlerweile als Verteidigungskrieg gegen fremde Mächte interpretieren.

Eine nichtimperialistische Großraumordnung, die sowohl in ihrem Inneren als auch in ihren Außenbeziehungen auf Prinzipien der Freiwilligkeit und Nichtintervention beruht, könnte die friedliche, goldene Mitte zwischen kriegerischer Staatenanarchie und autoritärem „Global Empire“ sein. In einem aus solchen Großraumordnungen zusammengesetzten Eurasien würde es genug Platz sowohl für säkulare als auch für religiöse Ordnungen geben, d.h. auch für ein Kalifat.

Eine gezwungene überkonfessionelle Einheit, eine künstliche synkretistische Ersatzreligion oder die Vorherrschaft einer einzigen Religion in Eurasien, wo alle großen Religionen der Geschichte ihre Anfänge haben, sind jedoch nicht nur utopische, sondern auch gefährliche Vorstellungen. Ein eurasisches Imperium wird eine multireligiöse, plurikulturelle und multirassische Einheit sein oder überhaupt nicht sein (F. Liepe, Jenseits des Nationalismus, in: Junges Forum 8, 2008: 22). Wäre diese eurasische Einheit in Vielfalt real, wäre das hegemoniale Projekt eines amerikanischen Jahrhunderts, das die Ideologen des US-Empires in ihren Think Tanks am Reißbrett entworfen haben, nur ein chiliastisch-säkularer Traum von der Einheit der Welt unter amerikanischer Führung geblieben.

Syrien, Eurasien und die neue multipolare Weltordnung - eine Studie zum Kampf um die künftige Weltordnung
1. Geostrategie und Geopolitik für ein neues amerikanisches Jahrhundert
1.1. Schachbrett Eurasien
1.2. Scheinmultilateralismus
1.3. Greater Middle East und Syrien
2. Ende der unipolaren Weltordnung
2.1. USA – von wollwollender Welthegemonie zur imperialen Weltordnugskampf
2.2. Multipolarität und Großraumordnung
3. Zwischen puritanisch-dschihadistischer Weltrevolution und panarabisch-nationalistischer Großraumordnung
3.1. Islamische Rechtstheologie
3.2. Sunniten vs. Schiiten
3.3. Politreligion, Sektarismus und die Wirkung der Scharia. Der Fall Syrien
3.4. Nationalstaat oder supranationales Kalifat?
4. Syrienkrieg als Weltordnungskrieg
4.1. Geostrategischer Krieg
4.2. Weltanschauungskrieg
4.3. Religionskrieg
4.4. Wirtschaftskrieg
5. Syrien und die Zukunft Eurasiens. Zwei Modellszenarien
5.1. Permanente Weltrevolution und eurasischer Bürgerkrieg
5.2. Eurasische Großraumordnungen mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte

mardi, 27 août 2013

Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

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Manœuvres d’été autour du chaudron égyptien

Ex: http://www.dedefensa.org

On peut d’abord se référer à deux textes publiés sur ce site, le 17 août 2013 et le 19 août 2013. En les rapprochant, voire en les rassemblant, on peut déjà disposer d’indices sérieux pour annoncer le développement que nous allons proposer ici. Il s’agit nécessairement d’une spéculation mais qui nous semble correspondre à de grandes tendances, donc présentant une cohérence qui justifie de la développer. Même si cette spéculation concerne essentiellement la communication, elle a toute son importance, à la mesure de l'importance du système de la communication dans l'évolution des situations.

• D’un côté, il y a le constat jusqu’ici en constant renforcement d’une considérable inconsistance de la politique égyptienne (et moyenne-orientale) des USA. On peut même parler, à ce stade, d’une dissolution passive de cette politique, et par conséquent d'une érosion accélérée de l’influence US avec la mise en question des liens de coopération entre les USA et l’Égypte. A ce stade, on ne peut rien avancer d’assuré mais on est tout de même conduit à constater que la tendance est déjà affirmée sur la durée, qu’elle correspond à une tendance générale de la politique US, à une situation politique à Washington, voire au caractère d’un homme (Obama), tout cela d’ailleurs s’additionnant. Comme l’on sait (le 17 août 2013), les militaires égyptiens s’en sont avisés, tandis que le sentiment général en Égypte est clairement antiaméricaniste (voir le 7 août 2013). Comme l’on sait également, le grand sujet au cœur de la “politique égyptienne” des USA, c’est l’aide militaire US à l’Égypte et son éventuelle suspension ou suppression, qui gagne de plus en plus de partisans. Daily Beast du 20 août 2013 affirme même que l’administration Obama a “discrètement” décidé de “suspendre” l’aide US à l’Égypte sans pourtant nommer “coup” la prise de pouvoir des militaires (ce qui obligerait légalement à une suppression officielle de cette aide) ; cette affirmation (suspension de l’aide) étant plus ou moins mollement démentie par la Maison-Blanche, qui continue pourtant son exploration sémantique du mot “coup”... (Le constat ici est qu’avec Obama la maxime “pourquoi faire simple quand on peut faire compliqué” est toujours respectée, le processus d’examen et de décision concernant le maintien ou pas de l’aide militaire ressemblant de plus en plus à une farce burlesque filmée au ralenti. L'absence de réalisation de cette perception catastrophique de sa politique par l'administration Obama est un phénomène psychologique remarquable, qui tient de l'autisme pour sa manifestation.)

• Devant cette incertitude de la position US, avec la perte d’influence considérable que cela entraîne, des rumeurs se sont développées à partir de la visite impromptue de Sultan Bandar, le chef du renseignement saoudien à la carrière mouvementée, à Moscou, le 31 juillet, avec 4 heures d’entretien avec Poutine à la clef. On a signalé, en nous attachant à la question des armements (voir le 19 août 2013), quelques-unes de ces rumeurs, affirmations semi-officielles et démentis qui le sont également ; et l'on a observé combien cette idée d’une certaine dynamique de consultation entre l’Arabie et la Russie, et encore plus à propos de l’Egypte que de la Syrie, avait la vie dure. La citation venue de Egyptian Independent ou/et (?) de DEBKAFiles sur le sujet d’une réunion convoquée par Poutine qui aurait eu lieu le 15 ou le 16 août à Moscou, est reprise dans nombre de textes («Putin had called an extraordinary session in the Kremlin to put “all Russian military facilities ‘at the Egyptian military's disposal.’” The report, which cited several sources without providing any further details about them, also said that “Putin will discuss Russian arrangements for joint-military exercises with the Egyptian army.”»)

• Justement, le site DEBKAFiles, qui alterne le pire et le meilleur, des narrative de circonstance à certaines indications intéressantes, a montré depuis des mois une constance réelle et bien documentée dans l’appréciation qualitative de la politique russe au Moyen-Orient, en Syrie certes mais aussi, depuis quelques temps, vis-à-vis de l’Égypte et là aussi en connexion avec l’Arabie. Dans une récente nouvelle, le 19 août 2013, DEBKAFiles explique la position d’Israël, favorable certainement aux militaires égyptiens mais dans une mesure très contrainte qui n’engage en rien l’avenir, avec une coopération strictement limitée à la lutte antiterroriste dans le Sinaï. («On Saturday, Aug. 17, El-Sisi remarked “This is no time to attack the US and Israel, because our first priority is to disband the Muslim Brotherhood.” Jerusalem found this remark alarming rather than comforting, noting that he made no promises about the future.») DEBKAFiles explique que la campagne en cours pour inciter le bloc BAO à soutenir les militaires selon le thème “les militaires ou l’anarchie” est essentiellement le fait, non d’Israël, mais de l’Arabie et des UAE, à l’instigation de Prince Bandar, et cela accordant une part importante de l’argument à la possibilité d’un tournant pro-russe de l’Égypte si ce soutien ne se manifeste pas... (Et tournant pro-russe de l'Arabie également...)

«Saudi Arabia and the United Arab Emirates – not Israel – are lobbying the West for support of the Egyptian military. Their campaign is orchestrated by Saudi Director of Intelligence Prince Bandar Bin Sultan - not an anonymous senior Israeli official as claimed by the New York Times, DEBKAfile’s Middle East sources report. The prince is wielding the Russian threat (Remember the Red Peril?) as his most potent weapon for pulling Washington and Brussels behind Egypt’s military chief Gen. Abdel-Fattah El-Sisi and away from recriminations for his deadly crackdown on the Muslim Brotherhood.

»The veteran Saudi diplomat’s message is blunt: Failing a radical Western about-turn in favor of the Egyptian military, Cairo will turn to Moscow. In no time, Russian arms and military experts will again be swarming over Egypt, 41 years after they were thrown out by the late president Anwar Sadat in 1972. Implied in Bandar’s message is the availability of Saudi financing for Egyptian arms purchases from Moscow. Therefore, if President Barack Obama yields to pressure and cuts off military aid to post-coup Cairo, America’s strategic partnership with this important Arab nation may go by the board.

»It is not clear to what extent Russian President Vladimir Putin is an active party in the Saudi drive on behalf of the Egyptian military ruler. On July 31, during his four-hour meeting with Prince Bandar, he listened to a Saudi proposition for the two countries to set up an economic-military-diplomatic partnership as payment for Russian backing for Cairo. [...]

»... From Israel’s perspective, the Bandar initiative if it takes off would lead to the undesirable consequence of a Russian military presence in Egypt as well as Syria. This would exacerbate an already fragile - if not perilous situation – closing in on Israel from the south as well as from the north.»

• Parmi d’autres commentaires qui vont dans le même sens, on notera celui de “Spengler”, le célèbre commentateur pseudo-incognito de ATimes.com, le 19 août 2013. “Spengler” ne déteste pas de se citer lui-même et il est attentif à suivre les grandes tendances de la politique générale d’une façon musclée. La situation américaniste ne lui a pas échappé, et sa description de l’extraordinaire “désordre paralysée“, de la formidable “impuissante puissance” du pouvoir américaniste à Washington n’est pas si mal vue. “Spengler” en déduit qu’il faut bien que d’autres prennent en charge ce que les USA ne sont plus capable d’assumer en aucun cas, – et, à son tour, il corrobore la connexion Russie-Arabie.

«Other regional and world powers will do their best to contain the mess. Russia and Saudi Arabia might be the unlikeliest of partners, but they have a profound common interest in containing jihadist radicalism in general and the Muslim Brotherhood in particular. Both countries backed Egypt's military unequivocally. Russia Today reported August 7 that “Saudi Arabia has reportedly offered to buy arms worth up to $15 billion from Russia, and provided a raft of economic and political concessions to the Kremlin - all in a bid to weaken Moscow's endorsement of Syrian President Bashar Assad.”

»No such thing will happen, to be sure. But the Russians and Saudis probably will collaborate to prune the Syrian opposition of fanatics who threaten the Saudi regime as well as Russian security interests in the Caucasus. Chechnyan fighters - along with jihadists from around the world - are active in Syria, which has become a petrie dish for Islamic radicalism on par with Afghanistan during the 1970s...»

Plus loin, “Spengler”, qui met également en scène la Chine pour nous proposer la vision surréaliste d’une alliance Moscou-Ryad-Pékin pour policer le Moyen-Orient, développe un raisonnement analytique pour montrer que, contrairement aux analyses ossifiées des experts du bloc BAO, la Russie est en bonne voie de renaissance et représente une puissance en pleine activité et pleine possession de ses moyens. Tout cela va dans le sens du courant général esquissé ici et là pour avancer l’hypothèse d’un changement de responsabilité dans le contrôle des affaires moyennes-orientales, qui pourrait effectivement se réaliser à l’occasion de la crise égyptienne où le bloc BAO se retrouve paralysé dans l’habituel dilemme qui, dans le brouhaha de sa rhétorique interne et de ses débats de communication, le conduit à considérer les deux options d’une politique comme aussi détestables l’une que l’autre. Ainsi les pays du bloc BAO, à l’image du Washington d’Obama, ne parviennent-il pas à se décider entre la condamnation décisive de la répression des Frères au nom de la sauvegarde d’une “démocratie” bien incertaine et le soutien affirmé aux militaires au nom de l’espoir du rétablissement d’un “ordre” bien suspect.

Mais cette paralysie renvoie moins à la difficulté du choix, quelle qu’en soit le justesse, qu’à la déliquescence interne du bloc BAO. Le cas extraordinaire des hypothèses qui sont soulevées dans ces rumeurs et ces diverses appréciations semi-officielles, se trouve dans ceci qu’on est conduit à se trouver obligés de constater que la monarchie archi-pourrie et déliquescente des Saoud s’avère finalement moins paralysée, moins ossifiée en un sens, que les pays du bloc BAO. Quant à la Russie, qu’on puisse envisager sans s’en étonner vraiment qu’elle-même puisse envisager de telles voies d’affirmation nouvelle au Moyen-Orient n’a justement rien pour étonner, puisque la situation égyptienne finit par ressembler pour elle à la situation syrienne : la proclamation des principes, dont ceux de la souveraineté et de la légitimité que les chars du général Sisi semblent avoir verrouillés à leur façon, et la lutte contre l’activisme islamiste en général et sous quelque forme que ce soit qui reste plus que jamais son obsession intérieure alimentée par les événements extérieurs. Simplement, on doit mesurer le chemin parcouru entre aujourd’hui et, disons, il y a trois ans d’ici, si l’on avait évoqué la possibilité d’un renouveau d’une influence majeure de la Russie en Égypte. (Ce chemin parcouru, cette situation nouvelle, justifient également les craintes israéliennes, appréhendant de voir un Sisi, à la tête d’un pays surchauffé, avec la “tutelle” US en déliquescence et dans les tendances nouvelles qui se manifestent, plus tenté de suivre dans sa politique régionale la voie nassérienne que celle de Moubarak pour verrouiller un rassemblement populaire qui rencontrerait un sentiment général.)

Finalement, la seule certitude que nous apporte cet ensemble de rumeurs et de suggestions semi-officielles sur une connexion de facto entre Russie et Arabie, c’est l’état absolument délabré de l’architecture du Moyen-Orient telle qu’elle fut élaborée depuis la fin de la Deuxième Guerre mondiale à l’avantage du bloc BAO. Le chaudron égyptien est moins le résultat de multiples manigances et manipulations que l’expression de cette décrépitude extraordinaire ; ainsi ne peut-on être surpris en aucune façon que cette situation égyptienne soit l’objet, dans tous les cas dans le champ de la communication, de manœuvres si nouvelles dans la composition de ceux qui les conduiraient éventuellement, pour tenter une recomposition de cette architecture. Quant au bloc BAO, finalement, tout s’explique dans le chef de sa paralysie, outre son état chronique qu'on observe : il se trouve plongé si profondément dans un débat sur l’état de lui-même, avec la crise Snowden/NSA, qu’il n’est pas loin d’être, d’une autre façon certes, dans une situation de confusion proche de la situation égyptienne. D’une certaine façon, il en est l’équivalent, encore une fois à sa manière, par rapport à la “décrépitude extraordinaire” de sa propre architecture.

dimanche, 25 août 2013

Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

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Le rêve arabe de l’Occident est parti en fumée...

L’Occident a fait un rêve: le monde arabe en 2013 allait devenir bon et gentil. En Egypte, Morsi, petit à petit, deviendrait un dirigeant compétent. En Syrie, le méchant Assad tomberait, à la suite de quoi, la bonne opposition aurait formé un gouvernement plus ou moins acceptable. En Libye aussi, un pouvoir relativement stable se serait installé. C’était un beau rêve...

La réalité sur le terrain est nettement moins rose. L’Egypte a attiré la une des médias au cours de ces dernières semaines, alors que la Syrie est toujours aux prises avec une guerre civile qui semble interminable. En Libye, la situation est toujours instable. La question arabe était prioritaire dans l’ordre du jour du récent sommet du G8 en Irlande du Nord. L’Egypte est toutefois le pays qui cause le plus de soucis, d’abord parce que le pays est vaste, fort peuplé et exerce un influence prépondérante dans la région. Alors, question: qui fait quoi?

Réticence américaine

Lors de son installation au poste de ministre des affaires étrangères aux Etats-Unis, John Kerry voulait damer le pion aux Européens, dépasser leurs ambitions. Il voulait même donner un souffle nouveau au processus de paix israélo-palestinien. A peine quelques mois plus tard, cette question israélo-palestinienne est passée à l’arrière-plan. Aujourd’hui, les dirigeants américains, bien que soutenus par le travail de nombreux universitaires, doivent constater que leur vieil allié égyptien est devenu un sérieux facteur de risque. Mais il y a une autre donnée dans le jeu, qui devrait susciter l’attention des Européens. Lorsque John Kerry renonce à rendre visite à quelques pays asiatiques pour se diriger immédiatement vers le Moyen-Orient, c’est un signal clair pour les pays frustrés d’Extrême-Orient. Un des principaux conseillers du “State Department” a relevé le fait récemment. Au moment où certains pays d’Extrême-Orient perçoivent de plus en plus clairement une menace chinoise, l’attention que portent les Américains au Moyen-Orient apparait comme “déplacée”. Toutes les régions du monde n’ont pas la même priorité pour les Etats-Unis. De plus en plus de voix s’y élèvent pour dire qu’il est temps que les Européens s’occupent un peu plus du Moyen-Orient.

C’est un fait: les événements du Moyen-Orient ont un plus grand impact sur la sécurité européenne que sur la sécurité américaine. Ce que l’Europe (du moins quelques pays européens) a fait jusqu’à présent témoigne surtout d’une absence de vision. L’Europe n’a pratiqué qu’une politique à court terme, partiellement dictée par l’émotion du moment. La Libye en est le meilleur exemple. Les Britanniques et les Français y ont déployé leur force aérienne mais l’opération n’a été possible que grâce aux missiles américains. De surcroît, les munitions se sont vite épuisées, si bien que l’on a dû, l’angoisse à la gorge, téléphoner à Washington... Récemment, les Britanniques ont considéré qu’il fallait impérativement entraîner 5000 nouveaux soldats et policiers en Libye. Ces effectifs semblent indispensables pour mater les milices rebelles. En parallèle, on a dû prévoir d’autres initiatives encore pour faire face à cette calamité que constituent les réfugiés libyens ou en provenance de la Libye qui, jadis, étaient retenus sur les côtes de l’Afrique du Nord suite à un compromis conclu avec Khadafi.

Et que faut-il penser des services de sécurité européens quand on constate le nombre de jeunes gars qui partent vers la Syrie... et reviennent tranquillement. Ils ne viennent pas seulement de Bruxelles, Anvers ou Vilvorde. Chaque pays européen a des volontaires sur le théâtre syrien. D’après une enquête récente, il y en aurait plus de 600. Qui plus est, un expert des Nations Unies a déclaré qu’un paradoxe s’ajoutait à cette situation: plus on parlait de ces volontaires, plus cela suscitait des vocations chez bon nombre de jeunes issus de l’immigration arabo-musulmane.

Une alternative européenne?

Un diplomate européen, à l’abri des micros et des caméras, a mis le doigt sur la plaie: “Ce qui s’est passé ces toutes dernières années dans plusieurs pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient a été interprété de manière beaucoup trop ‘idéologique’. On nous disait que c’était une révolution démocratique, une acceptation des libertés occidentales. On fermait ainsi les yeux face à certains faits”. Par exemple, on voulait “oublier” que s’il y avait des élections libres en Egypte, ce serait les fondamentalistes musulmans qui engrangeraient une bonne part des voix. L’Egypte compte bien davantage d’acteurs que les élites éclairées du Caire auxquelles se réfèrent sans cesse les journalistes occidentaux. Il suffit de prendre en considération la population moyenne, qui compte 40% d’analphabètes: elle ne partage évidemment pas les vues des Cairotes éclairés. Quant à ce que donneraient des élections en Syrie, on n’ose pas trop y penser...

L’Europe veut-elle et peut-elle arranger les bidons? D’aucuns estiment d’ores et déjà que l’attention portée au monde arabe est trop importante. La Lituanie, qui prendra bientôt la présidence de l’UE, a profité de l’occasion qui lui était donnée de s’exprimer pour souligner plutôt le danger que représente la Russie. Le message des Lituaniens était donc clair: il faut davantage s’occuper du danger russe. L’obsession des Français et des Britanniques à prendre parti pour les rebelles syriens est vue avec beaucoup de réserve par la plupart des autres pays européens. Ce bellicisme franco-britannique n’apporte aucune solution, au contraire, il crée de plus en plus d’instabilité. Dans les coulisses du monde des diplomates, on entend dire que, dans l’UE, se juxtaposent des “convictions parallèles”, et rarement une unité de vue, en ce qui concerne les pays d’Afrique du Nord et du Moyen-Orient. Entre ce qu’il faudrait faire et ce qu’il est possible de faire, il y a une césure considérable. Dans le passé, on a souvent pu constater la désunion des Européens en matière de politique extérieure. Cette désunion semble le plus grand obstacle à une présence européenne sérieuse dans ces régions du monde en ébullition.

“M.”/” ’t Pallieterke”, Anvers, 17 juillet 2013.

jeudi, 22 août 2013

U.S., Britain and New Big Game in Near East

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U.S., Britain and New Big Game in Near East

Interview with Jeffrey Steinberg

Ex: http://www.geopolitca.ru

1. Please give us a brief review of the contemporary situation in Egypt with respect to the recent government change and the recent riots, in Syria with respect to the ongoing civil war and insurgency, and in Turkey with respect to the recent socio-political crisis encountered by the Erdogan government.

The three situations must be treated as distinct but clearly all part of the same mosaic of change in the region.  Regarding Egypt, more and more evidence is coming out publicly, indicating that the Morsi government was more interested in consolidating absolute Muslim Brotherhood control over the state apparatus than in governing on behalf of the entire Egyptian people.  When somewhere between 10 and 22 million Egyptians turned out on the street on June 30 in a peaceful protest, demanding Morsi’s resignation, the Egyptian generals acted on that popular mandate.  This is an old story in Egypt.  The Army comes out of the Nasser tradition and sees itself as the guardians of the nation.  They had evidence that the Muslim Brotherhood was planning a purge of the top generals, arrests of opposition leaders and a move to consolidate the “Ikhwanization” of the country.  The interaction between the top leaders of the Muslim Brotherhood and the Army was intense prior to, during and after the ouster of Morsi.  This is an ongoing process.  Unless the Muslim Brotherhood decides to launch an all-out military campaign to take back power, they will be incorporated into the political process, including the upcoming elections.  Morsi and Khayrat al-Shatar, the power behind the scenes within the Muslim Brotherhood, made the mistake of presuming that the Obama Administration would assure that they remained in power by pressuring the Army to stay in the barracks, regardless of what happened on June 30.  Ultimately, the Muslim Brotherhood failed to live up to the mandate that they were given by the Egyptian people.  General Martin Dempsey, the wise Chairman of the U.S. Joint Chiefs of Staff recently observed that modern history has seen very few successful revolutions.  He noted that in almost every instance, except for the American Revolution, the first generation got it wrong, the next generation in power overcompensated and also got it wrong, and the third generation managed to get it mostly right.  We are at the very early stages of the Egyptian revolution.  Economic well-being for the vast majority of Egyptians is the ultimate test.  Egypt has water, which is the most precious commodity in the region, and has the capacity to grow vast amounts of food.  Development projects have been on the drawing board for a long time.  This will be the measure of success of the future governments.

The Syria crisis is a tragedy in almost every respect.  No one involved in the Syria events of the past two-and-a-half years is immune from some responsibility for the bloodshed and the near-total destruction of a nation.  A country that was once a model of communal integration (Sunni, Shiite, Alawite, Kurd, Druze, Christian) and was a birthplace of Christianity has been thoroughly Balkanized into warring factions.  Outside powers played the Syrian situation to their own interests and advantages.  President Obama, declared that President Bashar al-Assad had to go almost two years ago, before receiving any intelligence or military assessments of the situation there.  Saudi Arabia, Qatar and Turkey all jumped into the situation early on, promoting an armed Syrian opposition that was expected to oust President Assad in short order.  Now, Syria is the epicenter of a regional sectarian conflict between Sunni and Shiites/Alawites that has spread to Turkey, Iraq, Lebanon, Jordan.  The British have been promoting just such a sectarian “Hundred Years War” within the Muslim world as part of a classic Malthusian population reduction campaign.  Saudi hatred for the Syrian Alawites has been exploited by London, assuring that arms and cash have been flowing into the hands of a global Sunni jihadist apparatus.  Now, the Obama Administration is weighing in with covert support for a more “moderate” anti-Assad Free Syrian Army, centered in Jordan.  Weapons that were confiscated after the execution of Muammar Qaddafi in Libya in late 2011 have been smuggled into the hands of Syrian rebels, including the Al Qaeda-linked Al Nusra Front since April 2012.  The program has been coordinated out of the Obama White House and managed by the CIA.  President Obama has his own “Iran-Contra” scandal brewing and is attempting to cover up for crimes that have been ongoing for over a year and which could lead to his impeachment.  At one point, the danger of the Syrian crisis triggering a global war prompted US Secretary of State John Kerry and Russian Foreign Minister Sergei Lavrov to attempt to convene a Geneva II peace conference, as a way to avoid the situation slipping totally out of anyone’s control.  That Geneva II option remains the last best hope that further destruction of the entire region, and a possible trigger for general war can be prevented. 

There are some significant parallels between the Erdogan government in Turkey and the recently deposed Morsi Muslim Brotherhood government in Egypt.  Since coming into power, Prime Minister Erdogan had pursued a policy of economic and political cooperation with all of Turkey’s neighbors.  That policy served Turkey well for several years, building trade with Russia and Iran, settling Kurdish conflicts involving both Turkey and Syria, and building a strong economic bridge with the Kurdish Regional Government in Iraq, without damaging Ankara-Baghdad relations.  When the Syrian protests erupted in early 2011, President Obama urged Prime Minister Erdogan (one of the few foreign heads of state to have any kind of personal relationship with the US President) to “take the lead” in pressing for Assad’s rapid removal from power.  Erdogan presumed that Washington would make good on its demand for Assad’s removal from power.  Given the US role in the overthrow and execution of Qaddafi in Libya, and given the Obama Administration’s strong promotion of humanitarian interventionism and “R2P” (“Responsibility to Protect”), post-Westphalian dogmas permitting a full range of intervention into the internal affairs of formerly sovereign states, Erdogan was not totally foolish in his expectation that Washington would run a replay of Libya in the Eastern Mediterranean and Assad’s days were numbered.  That prospect never materialized, and as the result, the Turkish people are becoming disillusioned with the Erdogan AKP approach.  The Turkish Army, having been a target of Erdogan purges, is becoming restless.  The Turkey situation has become an important piece of the regional disintegration.  Economic and political agreements with Iran, Russia, Syria and even Iraq are now in doubt.  Turkey is facing a period of potential turmoil.  The European economic crisis, far from being solved, will add further fuel to the fire in Turkey.

2. What is nature of the Arab Spring, and how do you see the Arab Spring developing in the future?

There are two dimensions to the Arab Spring that are generally ignored.  First, a combination of economic depravations and political persecution created a “perfect storm” for popular dissatisfaction to spill over into mass action.  In Tunisia, as well as Egypt, a well-educated segment of youth revolted over the fact that they had no prospect for a future in their own country.  The initial impulse was that of a classic “mass strike” when a large percentage of the population concluded that they had nothing left to lose, and they seized upon a symbolic event and launched a public demand for change.  Second, once events on the ground reached a critical mass, external political forces intervened for self-serving reasons.  London wants a permanent war of “each against all” to reduce the population levels in the developing world.  Saudi Arabia and Qatar, two rival Wahhabi monarchies, began pouring money into contending factions of the Islamist opposition and the militaries.  The Obama Administration concluded that the Muslim Brotherhood were the safest representatives of “political Islam” and began backing them in both Egypt and Syria.  The fact that the United States has turned Qatar into a forward-based hub of Washington power projection in the region has, up until the recent change of power in Qatar, meant a combined Doha-Washington backing for the Muslim Brotherhood as the “pragmatic” Islamists.  There is a serious reassessment now underway in Washington.  The outside factors made it impossible for the internal dynamics of Egypt and Syria to come to an understanding about a way forward.  At no time was there adequate outside economic assistance to provide breathing room for a raw political process to evolve.  The standard IMF recipes for economic starvation and “shock therapy” privatization and de-subsidization made matters worse. 

3. What is the role of the Muslim Brotherhood in Syria and in Egypt?

Historically, the Muslim Brotherhood was a creation of the Sykes-Picot colonial process and of British intelligence.  The organization evolved, spread, spawned a far more virulent network of more radical jihadists including Al Qaeda.  A long exile in Saudi Arabia, following the Nasser crackdown against the Brotherhood beginning in the 1950s, spawned a new neo-Salafist phenomenon.  When Hafez Assad launched his own harsh crackdown against the Syrian Muslim Brothers in the early 1980s, that led to a second wave migration and exile in Saudi Arabia.  Under the influence of Dr. Bernard Lewis, a British intelligence “Arabist” who is also a leading Zionist, successive American administrations adopted the “Islamic Card” as a tool to bring down the Soviet Union.  The Afghan War of the 1980s saw British and American intelligence deepen the alliance with the Muslim Brothers.  This spawned Al Qaeda and a large number of groups that were foreign fighters brought to Afghanistan as “muhahideen” trained and armed to fight the “Godless” Soviet Red Army.  The Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), an arm of Al Qaeda created by Afghanzi fighters who returned to Libya after that Soviet withdrawal from Afghanistan, is exemplary of the spreading neo-Salafist problem that emerged out of the “Bernard Lewis Plan” to play Islam against Communism.  When Communism collapsed in the early 1990s, the West in general and the United States in particular became the “New Satan” to be targeted.  The Obama Administration’s belief that the Muslim Brotherhood was potential allies led to a string of policy blunders and mishaps that are still playing out.  In recent weeks, Washington’s love affair with the Muslim Brotherhood has fractured.  The ouster of the Emir and prime minister of Qatar has weakened the financial support for the Muslim Brotherhood.  It is too early to say what the next phase of the process will look like, but the naïve presumptions about the Muslim Brotherhood are being severely challenged right now.

4. Is there a difference between the policy supported by General Dempsey and Defence Secretary Hagel on the one hand and the State Department and White House forces on the other? If yes, please explain these differences.

There are significant differences.  General Dempsey is a leading figure in a war-avoidance faction inside the governing institutions of the United States.  He has taken a courageous stand, opposing direct US military engagement in Syria.  He wants to bring home the American troops who have been engaged for over a decade in Afghanistan, and he wants to assure that there is never again a long war that drains the armed forces and the nation’s resources of the US.  He has the backing of Defense Secretary Hagel in this quest.  General Dempsey believes that it is a priority to deepen cooperation with Russia and China, the other two leading world military powers.  He judges all military options from a global overview.  The contrasting views inside the Obama Administration are centered at the White House with people like Dr. Susan Rice and the former Special Assistant to the President Samantha Power, now the President’s nominee to replace Rice at the UN.  They are extreme proponents of humanitarian interventionism.  In that respect the “liberal” humanitarian interventionists are soul mates of the neoconservatives of the Bush-Cheney era.  It is ironic but also not surprising that the leading war-avoidance forces in the United States are active duty and retired flag officers of the armed forces, who have lived through the hell of the post-911 long wars and want no more of it.  They are painfully aware that a conflict that pits the United States against Russia and/or China could lead to thermonuclear war and extinction of mankind.  They understand war as Dr. Rice and Samantha Power (and President Obama) do not.

5. What is the role of Israel and of the U.S. Israeli lobby in the contemporary upheaval in the Middle East and the Eastern Mediterranean in general? 

The Revisionist Zionist Movement, founded by Jabotinsky and now ruling Israel under Netanyahu, is a British colonial creation—part of the divide and conquer strategy that the British and French imposed on the Middle East from the end of World War I.  Israel and the Israeli Lobby, as such, are expendable pawns in the larger British game.  To the extent that Israel has any pretence of being a sovereign state, they have been pursuing a series of tragic self-destructive policies ever since the assassination of Prime Minister Yitzhak Rabin in 1995 after his historic Oslo Agreement with Yasser Arafat and the PLO.  Without a drastic change in policy, Israel is likely doomed.  The Israeli Lobby is a powerful force in Washington politics but is not all-powerful.  Right now, their focus is on Iran.  Their primary objective is to keep up pressure on President Obama to where he will eventually take military action for regime change in Iran.  That could be a trigger for all-out war, which is exactly what General Dempsey and the rest of the JCS want to avoid at all costs.  Israel was, ironically, sidelined as a minor player in the unfolding events in Egypt and Syria.  There is no good outcome of the Syrian mess from Israel’s standpoint.  They had a truce with the Assad governments in Syria and came close on several occasions to formalizing it in a Camp David-style treaty with Damascus.  Israel may appreciate the benefits of the Syrian Army being gutted, but they do not welcome a Jihadist state on their northern border.  The British will sell out Israel in a heart-beat to pursue their new game of permanent brutal sectarian war within Islam.

6. Which is the strategy of Netanyahu and the Zionist political forces in general in the fields of geopolitics and geoeconomics?

The Netanyahu Zionists want to maintain the status quo of gradual absorbtion of the entirety of the West Bank into a Jewish state.  They will exploit so-called peace negotiations with the Palestinians to stall, as new settlement expansion accelerates by the day.  As pawns of larger forces, including the British, they do not really have a strategic vision.  They have integrated their high-tech aerospace and electronics sector into the United States economy to such an extent that they are defacto the 51st state.  Most Israeli high-tech companies have their stock traded on the NASDAQ exchange in New York. A majority of Israeli Jews are so fed up with the madness dominating Israeli politics that they would prefer to live in the United States.

Interviewed by  Dr Nicolas Laos (member of the faculty of International Relations at the University of Indianapolis, Athens Campus (Greece) and a columnist of the Greek political daily newspaper "Ellada").

 

mercredi, 21 août 2013

La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

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La CIA le confirme: la chute d’Assad nuirait aux intérêts américains!

On le sait, à force d’avoir eu les oreilles bassinées par le flot de tirades médiatiques: Washington travaille depuis des années à la chute du Président syrien Bechar El-Assad. Pourtant la disparition de celui-ci n’irait pas dans le sens des intérêts américains, vient de déclarer Michael Morell (photo), un des directeurs de la CIA, dans un entretien accordé au “Wall Street Journal”. Morell: “Dans ce cas, la Syrie deviendrait un refuge pour terroristes de toutes sortes... Le risque est le suivant: le gouvernement syrien possède des armes chimiques et d’autres équipements de pointe et, s’il tombe, le pays deviendrait automatiquement un bouillon de culture pour le terrorisme (ndt: avec les armes chimiques et autres)”. Morell craint surtout un renforcement du réseau Al-Qaeda.

(note parue dans “zur Zeit”, Vienne, n°33-34/2013; http://www.zurzeit.at ).

CHAOS EN EGYPTE

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LE CHAOS EN EGYPTE
L'instrumentalisation du divin et l'Ordre impérial


Chems Eddine Chitour*
Ex: http://metamag.fr

 «La religion relève de Dieu et la Nation appartient à tous ses citoyens» 
Addine LIllah oua el Outane lildjami'e

Ça y est! Ce qui devait arriver arriva !  L'Egypte est à feu et à sang. Des centaines de victimes innocentes pour une cause qui est celle de l'accaparement du pouvoir soit par les «mécréants» représentés par l'armée et les libéraux soit par les Frères musulmans qui veulent gouverner au nom du divin. Les deux camps manipulés par un Occident qui a toujours deux fers au feu attend dans quel sens va pencher le balancier. C'est un fait et nous l'avons écrit, l'intervention de l'armée pour écarter le président Morsi le 3 juillet est un coup d'Etat qui ne veut pas dire son nom.

Une dispersion qui est devenue un «bain de sang» 

Deux des personnalités qui ont cautionné le coup de force, se récusent pour protéger leurs arrières. D’abord, l'imam d'Al-Azhar, plus haute autorité de l'islam sunnite, s'est désolidarisé après avoir pourtant apporté sa caution lors du coup de force des militaires contre Mohamed Morsi le 3 juillet. Ensuite, Mohamed ElBaradei, le nobélisé par l’Occident pour services rendus dans le fonctionnement de l’AIEA, a aussi  annoncé sa démission du gouvernement. Cependant le gouvernement et la presse, quasi unanimes, accusaient les Frères musulmans d'être des ´´terroristes´´ ayant stocké des armes automatiques sur les deux places et se servant des femmes et des enfants comme ´´boucliers humains´´. 

l'imam d'Al-Azhar et Mohamed ElBaradei

Cette violence  a une imprimatur . Ce n’est pas en effet l’Empire qui a adoubé l’opération.  On se rappelle cependant que le secrétaire d'Etat américain John Kerry avait déclaré jeudi 1er août que l'armée égyptienne était en train de «restaurer la démocratie» alors même qu'elle a renversé le président élu du pays, Mohamed Morsi, lors du coup d'Etat militaire du 3 juillet. «Des millions et des millions de gens demandaient à l'armée d'intervenir, ils avaient tous peur de sombrer dans le chaos, dans la violence.» Il a poursuivi, «Et l'armée n'a pas pris le pouvoir, d'après ce que nous comprenons jusque... jusqu'ici. Il y a un gouvernement civil. En fait, ils restauraient la démocratie.» 

Mohamed Morsi est –il indemne de reproches ?

Dans les pays évolués, quand un président est élu pour un mandat, il ne vient à l’idée de personne de remettre en cause sa légitimité en le « déposant » avant la fin de son mandat. Pourquoi avoir interrompu un processus que chacun s’accorde à dire qu’il est difficile à faire aboutir dans les temps d’un coup de baguette magique ou comme dit on en pays arabe ; « khatem sidna Soulimane », la bague de Sidna Soulimane censé  produire des miracles contre le chômage,  la chute du tourisme, le népotisme et les mauvaises habitudes de l’ancien système.   De plus il faut  signaler que tout le monde «occidental» l'avait adoubé et même les potentats réactionnaires du Golfe qui l'ont aidé financièrement. Que s'est-il passé pour qu'il tombe en disgrâce? Pourtant, il a fait ce qu'on lui a demandé à l'extérieur vis-à-vis de l'extérieur, allant jusqu'à inonder les tunnels de Rafa pour asphyxier les Palestiniens de Ghaza, il a dénoncé Damas, coupé les relations diplomatiques, chassé l'ambassadeur. Montré chaque fois que demandé, son allégeance.

 

A l'intérieur de l'Egypte il semble que cela soit tout à fait  une autre affaire ! Morsi a été élu, disent ses détracteurs, dans des conditions douteuses et aurait, toujours, d'après ses détracteurs amené l'Egypte au chaos. Tarek Ezzat, un militant anti-Morsi nous explique  dans un catalogue à la Prévert, comment Morsi n'a pas été élu démocratiquement: 
«1-Fraude en masse, chrétiens et femmes menacées pour les dissuader de voter, assassinat d'opposants. Son parti et la confrérie islamique ont falsifié les listes électorales, C'est pour permettre à ces fraudeurs de voter partout que les élections ont été étalées sur plusieurs jours. 2- Une autre affaire de fraude concerne l'imprimerie nationale qui a émis plusieurs centaines de milliers de bulletins de vote qui ont été remis aux partisans de Morsi pour bourrer les urnes. 
3-Les anti-Morsi et surtout les chrétiens ont été interdits de vote parfois sous la menace de brûler leurs maisons ou leurs commerces et de tuer leurs enfants. 
4-La magistrature a refusé de superviser les bureaux de vote, parce que les «Frères musulmans» s'attroupaient en masse dans les bureaux de vote pour intimider les votants et les obliger à voter pour Morsi. (...) 
5-Le jour où la Haute Cour constitutionnelle devait rendre sa décision sur la validité du vote sur la Constitution, des hordes payées par les islamistes ont assiégé le bâtiment de la cour et empêché les magistrats de se réunir.» 

A charge encore, sous le règne des Frères musulmans majoritaires, les «députés» de l'Assemblée nationale ont proposé les textes de lois suivants: une loi supprimant l'âge minimal du mariage, pour permettre le mariage des filles mineures et même enfant. Une loi supprimant la scolarité obligatoire des enfants et la gratuité de l'enseignement primaire. Depuis que Morsi a été «élu», les chrétiens étaient accusés d'être des «croisés» ennemis de l'Égypte et de l'Islam, En plus des chrétiens, il y a eu en mai 2013 un véritable pogrom où les islamistes ont assassiné d'autres musulmans chiites qui priaient. Morsi et sa mafia ont délibérément laissé des djihadistes de Aqmi et de Hamas investir le Sinaï, pour servir de force de soutien, Morsi a nommé comme gouverneur de la région touristique de Louxor un membre d'une association terroriste qui avait assassiné 75 touristes devant le temple de Hatshepsout ». 

Pour toute ces raisons, la coupe est pleine vue du côté de ses détracteurs. Tarek Ezzat, conclut : «  Le peuple, qui est la source de la légitimité démocratique n'a pas accepté de vivre 3 ans de plus sous ce régime criminel pour respecter une échéance électorale qui serait évidemment truquée et falsifiée comme la précédente.» .

Il y a  peut être  aussi, une autre cause : Il est indéniable, en effet  que  l’armée que l'on dit populaire est un segment important aussi de l'économie du pays (20 à 30 %du PIB), ce qui veut dire que le président Morsi voulait remettre en cause cela ?

Que peut encore faire l'armée ? 

Les jours et les mois qui viennent seront difficiles car chacun a bien conscience qu'une grande fracture a eu lieu entre les pros et les anti-morsi qui ont aidé l'armée dans le massacre des Frères musulmans. Les vengeances seront terribles et on s'oriente, à Dieu ne plaise vers un scénario à l'algérienne que nous avons connu et que nous ne souhaitons pas à notre pire ennemie, tant ce fut une guerre de tous contre tous, devant l’indifférence de la communauté internationale, nous qui nous égosillons dans le désert à tenter de convaincre de la nuisance de ce mal, jusqu’à ce que par miracle, on s’aperçoive 200.000 morts plus tard , que l’Algérie avait raison  dans son combat.

Que peut faire l'armée ?


Le chaos égyptien va favoriser les ´´jusqu'aux-boutistes´´ des deux bords et donc, violence et coup d'Etat. On peut légitimement penser que ce coup d'Etat a ouvert la boîte de pandore en Egypte. En décrétant l'état d'urgence on revient au régime de Hosni Moubarak, qui autorise les forces de sécurité: d'arrêter et fouiller sans restriction les personnes présentant une menace; pour garder en détention des suspects sans mandat et pendant des années; de surveiller les communications et les médias; d'interdire le port d'arme. Cette loi a permis à Moubarak de détenir environ 17.000 prisonniers politiques sans jugement, selon l'ONG Amnesty International. L’armée ne lâchera pas, elle s’est trop engagée ! Seule une communauté internationale mobilisée sérieusement pourra mettre fin à cette fitna


Que vont faire les Frères musulmans? 

De leur côté les Frères Musulmans savent que la cause est perdue, mais il semble que, pour le moment, les jusqu’aux-boutistes tiennent les rênes du mouvement, envoyant à l’abattoir des dizaines de jeunes chaque jour. Pourtant le mouvement des Frères Musulmans a dû sa longévité à sa souplesse, voire sa faculté de faire le dos rond dans des situations difficiles. Ce sont les compromis qui lui ont permit de durer. Il faut se souvenir, en effet, que le mouvement des Frères musulmans existe depuis plusieurs décennies et qu'ils ont toujours pu rebondir malgré des périodes difficiles. Il se présente comme l'allié objectif de l'Empire. De plus, leur faculté d'endoctrinement a fait que ce sont les faibles qui trinquent. Ces 500 morts, pour la plupart jeunes - comme la fille du leader Al Baltagui- sont-ils morts pour aller au paradis ou pour avoir une vie meilleure ici-bas? 

Pour Ali Hakimi, deux grandes lignes d'hypothèses se dégagent autour de l'attitude que les Frères égyptiens sont en train de camper pour récupérer le fauteuil de leur président élu Mohamed Morsi. La première reposerait sur leur pleine conscience du rapport de force qui prévaut et qu'ils ne devraient pas ignorer. Puisqu'il est évident qu'ils ont en face d'eux l'écrasante majorité du peuple égyptien et tous les moyens de la violence d'Etat, cette conscience de leur faiblesse et de leur isolement politique aurait pour preuve le recours aux femmes et aux enfants dans les rassemblements. De ce point de vue, la perspective d'un apaisement négocié du conflit n'est pas de mise. L'issue violente devient plus qu'inévitable. Céder se transformerait donc en reconnaissance, non seulement d'une défaite contre les ennemis de l'Islam, mais de l'impossibilité consommée de la réalisation d'un «Etat islamique», présenté comme alternative à «l'Etat laïque» en vigueur. 

Il faut croire qu'ils n'ont pas opté pour la sagesse, qui aurait fait qu'ils se retirent de la rue. Au contraire, par leur envahissement, ils ont braqué les autres Egyptiens contre eux. La preuve ce fut le carnage le lendemain Vendredi de la colère  avec plus de soixante dix morts. 

Les habitants du quartier de Rabaa Al-Adawiya, lit-on dans une contribution du Courrier international, ont déjà exprimé leur colère et leur frustration à se voir occupés par les partisans du président déchu: les dirigeants de la confrérie, en particulier son guide suprême Mohamed Badie et Mohamed Al-Beltagui pourraient choisir de mettre en danger leur organisation et l'Egypte, en les jetant dans une spirale de violence et d'instabilité. Les Frères musulmans n'ont visiblement pas tiré les leçons de leur confrontation avec Nasser dans les années 1950: (...) La seconde option passerait par une médiation entre l'armée et la direction des Frères musulmans. La colère gronde au sein même de la confrérie, où certains dénoncent la gestion de la crise par le guide suprême: chaque fois qu'ils ont été puissants, ou se sont crus puissants, les Frères ont systématiquement eu recours à la force et à la violence. (...) A cela s'ajoute leur tendance à se considérer perdants dès lors qu'ils n'ont pas tout raflé- ce dont témoignent, par exemple, leurs efforts pour prendre la main sur toutes les commissions parlementaires après leur victoire aux élections de 2012. (...) Enfin, il faut signaler que le projet islamique, dans le Monde arabe, est pour l'heure presque terminé (...) Mais s'ils persistent dans leur volonté d'escalade guerrière pour ramener Morsi au pouvoir, ils risquent de s'affaiblir. Et pour des décennies. 

La déchéance du Monde arabe musulman 

A des degrés divers les élites religieuses ou politiques arabes  sont responsables de l’anomie du Monde arabe qui est reparti pour un long Roukoud (affaissement moral) après la Nahda initiée par l’Emir Abdelkader puis par des penseurs comme Djamel Eddine El Afghani, Mohamed Abdou voire Mohamed Iqbal. Où sont-ils les héritiers de ces géants de la pensée ?

Pour expliquer le poids réel actuel  du Monde arabe musulman, il faut savoir que, dans toutes les statistiques scientifiques, il est invisible. L'Egypte que l'on dit «le poids lourd» du Monde arabe est un nain technologique. Les islamistes et l'armée s'entre-tuent avec des armes vendues par l'Occident aux belligérants. D'après le rapport du PNUD sur le développement humain 2005 «Le retard dans le domaine des connaissances et de leur transmission entraîne l'absence de démocratie». C'est le constat d'un groupe d'intellectuels de la région travaillant pour l'ONU. Le Monde arabe, avec quelque 280 millions d'habitants qui partagent une langue, une religion et une histoire communes, est un désert du savoir et de la création, selon un rapport d'un groupe d'intellectuels arabes. En raison d'un environnement culturel et politique rétif à la recherche, il publie de moins en moins de livres, lesquels sont de moins en moins lus et de plus en plus censurés. Il existe dans le monde, en moyenne 78,3 ordinateurs pour 1 000 personnes. Ce rapport n'est que de 18 pour 1 000 dans les 22 pays arabes. Et seuls 1,6% de leur population ont accès à Internet. Il y a plus d'internautes en Israël que dans le monde arabe.  (Le Monde arabe : Rapport du PNUD sur le Développement humain. 2005)  

De plus, le classement de Shanghai du jeudi 15 août 2013 des universités mondiales, confirme à nouveau  la nullité scientifique du Monde dit arabe, et la suprématie des universités américaines, qui se taillent la part du lion, avec le tiercé gagnant composé de Harvard, Stanford et Berkeley. Le Massachusetts Institute of Technology (MIT) est quatrième, l'université britannique de Cambridge, cinquième.»  Les universités arabes ne sont visibles qu'après la cinq millième place! C'est dire si le retard est important! 

Retard du à la croyance au XXIe siècle ?

Les Arabes sont–ils sous développés scientifiquement du fait qu’ils sont censés être des croyants et que c’est leur irrationalité qui les empêchent d’être rationnels ? Est-ce dû à l'islam voire à un gène qui fait que les musulmans sont croyants? Sommes-nous programmés pour croire? «Avons-nous un interrupteur «divin» dans la tête? Un bout de cervelle, une disposition particulière des neurones- Le gène de Dieu?-qui permettrait de nous identifier comme croyant ou non? Les neuroscientifiques, notamment aux États-Unis, depuis les années 1980, travaillent en tout cas sur cette hypothèse. D'où le développement d'un champ original de la recherche: la neurothéologie.» 

De plus, on dit que les athées seraient plus intelligents que les croyants? Des scientifiques de l'Université de Rochester, ont établi qu'ils sont en moyenne moins ´´intelligents´´ que les personnes athées; cette étude se fonde sur les capacités analytiques ou d'abstraction. C'est une étude à faire bondir les croyants de toutes obédiences.» 

Démocratie ou califat ?

En fait, ce n'est pas une question de croyance, les musulmans du fait de leurs dirigeants sans réelle légitimité ne sont pas libres. «En un mot comme en cent, rappelle Mohamed Bouhmidi, le Monde arabe ne s'appartient pas, et dans cet espace, l'Egypte encore moins. Dans ces conditions, il est difficile de parler de démocratie. Quand l'essentiel des décisions de souveraineté vous échappe, que vaut la souveraineté du peuple, postulat primordial de l'exercice de la démocratie qui traduirait en actes et en réalité cette souveraineté?(...)».

Pour René Naba, le califat est une utopie dans les conditions actuelles: «Un an de pouvoir a fracassé le rêve longtemps caressé d'un 4e Califat, qui aurait eu pour siège l'Egypte, le berceau des «Frères musulmans», devenue de par l'éviction brutale du premier président membre de la confrérie, la tombe de l'islamisme politique. Le Califat est une supercherie lorsque l'on songe à toutes les bases occidentales disséminées dans les monarchies arabes, faisant du Monde arabe la plus importante concentration militaire atlantiste hors des Etats-Unis. Dans un contexte de soumission à l'ordre hégémonique israélo-américain, le combat contre la présence militaire atlantiste paraît prioritaire à l'instauration d'un califat. Et le califat dans sa version moderne devrait prendre la forme d'une vaste confédération des pays de la Ligue arabe avec en additif l'Iran et la Turquie soit 500 millions de personnes, des réserves énergétiques bon marché, une main-d’œuvre abondante. En un mot, un seuil critique à l'effet de peser sur les relations internationales. Faute d'un tel projet, en présence des bases de l'Otan, le projet de restauration du califat relève d'une supercherie et d'un trafic de religions». 

«Le devenir de l'Islam, écrit Burhan Ghalioun, dépendra des efforts conscients de compréhension, d'assimilation et de maîtrise que les musulmans déploient pour dominer leur temps et leur environnement. Rien n'est certes gagné d'avance, mais rien non plus n'est perdu.

Il faut bien l'admettre, il n'est dans l'histoire aucune fatalité. Si le Texte reste actuel, c'est que les sociétés musulmanes n'en ont pas encore épuisé le sens, qu'il est encore capable de les inspirer et est ouvert à l'enrichissement.»(Burhan Ghalioun Islam et politique., Editions Casbah 1997) .

* enseignant à l'Ecole Polytechnique enp-edu.dz

mardi, 20 août 2013

Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique

 

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Egypte : un casse-tête pour l’idéologie démocratique
 
Obama, caméléon sur couverture écossaise


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr
On l’aura bien compris, Barak Obama tout comme notre illustre président, sont pour la paix et la démocratie partout dans le monde et en Egypte en particulier.
On aura également compris que ce n’est pas gentil de tirer à l’arme lourde sur de pacifiques manifestants. Mais une fois cet angélisme démocratique accepté comme théorème de départ, reste tout de même à déterminer qui est gentil et qui est méchant.

Le drame du démocrate, c’est de ne pas pouvoir faire du manichéisme comme Mr Jourdain faisait de la prose. Quand il est impossible de désigner un méchant absolu, que tout est dans la nuance de tons entre oppresseurs et fanatiques, le démocrate type mondialiste,  modèle Obama, se retrouve comme le pauvre caméléon sur la couverture écossaise. Il crève de ne pouvoir prendre toutes les couleurs à la fois.

A dire vrai les forces de l’ordre, police et armée sont à la reconquête d’un pouvoir qui leur avait échappé. L’armée qui ne fait plus la guerre depuis 71 et les fameux accords de paix qui ont gelé le plus important des pays arabes dans une stratégie américaine très favorable à Israël, se retrouve face à la rue.

Entre le putschiste et le président élu, le cynisme occidental

Mais ceux qui occupent la rue ne sont pas de pacifiques manifestants. Ce sont des fanatiques religieux qui veulent imposer un pouvoir théocratique intégriste par la force et le terrorisme au besoin. Ils ont certes remporté les élections mais, tout de suite, ils ont fait dériver le régime vers un totalitarisme correspondant à leur idéologie religieuse.

Une armée détournée de la guerre pour devenir l’instrument d’un régime autoritaire se retrouve face à des milices armées appuyées par une partie de la population. C’est pourquoi Assad soutient l’armée égyptienne et la Turquie les islamistes. Quant aux démocrates égyptiens, plutôt favorables à l’armée d’ailleurs, ils comptent pour peu de choses.

Les dirigeants occidentaux prisonniers de leurs beaux sentiments pratiquent une hypocrite langue de bois qui condamne la force sans pour autant envisager quoi que ce soit. Une chose est sûre, d’un côté les kakis, de l’autre les barbus et entre les deux pour le moment rien ou presque.

Vu d’occident, on aurait tout intérêt objectivement à une défaite même sanglante des islamistes, car ce sont eux qui nous menacent et certainement pas l’armée égyptienne. Les choses sont simples, sauf pour les idéologies compliquées qui essayent d’adapter des situations spécifiques à des normes communes.

La condamnation prétendument unanime de la communauté internationale, c’est à dire les Usa et leurs alliés est, bien sûr, aussi facile qu’inutile. Se donner bonne conscience est une chose, finalement la seule que nos dirigeants  tentent de faire à chaque fois, de l’Irak à l’Egypte en passant par la Syrie.

Mais  l’esprit critique en apporte la preuve. Face aux conflits de notre temps, la grille de lecture démocratique est obsolète.

mercredi, 03 juillet 2013

LIBYE : L’Italie revient sur la « quatrième rive »

LIBYE : L’Italie revient sur la « quatrième rive »

L’art de la guerre

Dans sa rencontre avec le premier ministre Letta pendant le G8, le président Obama « a demandé un coup de main à l’Italie pour résoudre les tensions en Libye ». Et Letta, en élève modèle, a sorti de son cartable le devoir déjà fait : « un plan pour la Libye ». La ministre Bonino, fière de tant d’honneur, jure : « nous ferons le maximum, la Libye est un pays que nous connaissons bien historiquement ».Aucun doute à ce sujet. L’Italie occupa la Libye en 1911, en étouffant dans sang la révolte populaire, en utilisant dans les années 30 des armes chimiques contre les populations qui résistaient, en internant 100mille personnes dans des camps de concentration. Et, quand trente années plus tard elle perdit sa colonie, elle soutint le roi Idriss pour conserver les privilèges coloniaux. Idriss tombé, elle passa un accord avec Kadhafi pour avoir accès aux réserves énergétiques de la République libyenne mais, quand la machine de guerre USA/Otan s’est mise en marche en 2011 pour démolir l’Etat libyen, le gouvernement a déchiré, avec un consensus bipartisan du parlement, le Traité d’amitié signé trois années plus tôt avec Tripoli, en fournissant des bases et des forces militaires pour la guerre. Une histoire dont on peut être fiers. Qui continue avec le plan italien pour la « transition démocratique » de la Libye, où – comme même le Conseil de sécurité de l’Onu a été obligé de le reconnaître- se produisent « de continuelles détentions arbitraires, tortures et exécutions extra-judiciaires ». Se trouvent en jeu, explique Bonino, « non seulement l’intérêt des Libyens mais notre intérêt national » : d’où « le ferme engagement du gouvernement italien pour la stabilité du pays nord-africain ». Stabilité nécessaire à l’Eni et aux autres compagnies  occidentales pour exploiter, à des conditions beaucoup plus avantageuses qu’avant, les réserves pétrolifères libyennes (les plus grandes d’Afrique) et celles de gaz naturel (au quatrième rang en Afrique). Mais ce sont justement les champs pétrolifères qui sont  au centre des affrontements armés entre factions et groupes, dont la rivalité a explosé une fois l’Etat libyen démoli.

Le chef d’état-major libyen, Salem al-Gnaidy, a invité les groupes armés à se mettre sous le commandement de l’armée, disposée à accueillir « n’importe quelle force ». Mais ceci risque de faire exploser les affrontements à l’intérieur de l’armée, en grande partie encore à construire. L’Otan a convoqué à Bruxelles le premier ministre libyen Ali Zeidan pour établir les modalités d’entraînement de l’armée libyenne, qui -a précisé le secrétaire général Rasmussen- sera effectué « hors de la Libye ». En Libye, ceux qui tireront les marrons du feu, seront des envoyés militaires et des fonctionnaires italiens, accompagnés d’ « opérateurs humanitaires » militarisés. Personne ne sait combien coûtera cette opération, qui provoquera une nouvelle saignée d’argent public. Peu importe si augmente ainsi la dépense publique de l’Italie, qui se monte déjà à 70 millions d’euros par jour. L’essentiel est de « faire le maximum » pour que la coalition USA/Otan puisse contrôler la Libye, dont l’importance ne réside pas que dans sa richesse énergétique, mais dans sa position géostratégique dans l’aire nord-africaine et moyen-orientale. Confirmé par le fait –d’après une enquête du New York Times- que des armes des anciens arsenaux gouvernementaux sont transportées par des avions cargos qatari de la Libye à la base d’Al Udeid au Qatar, où sont déployées les forces aériennes du Commandement central étasunien, et de là envoyées en Turquie pour être fournies aux « rebelles » en Syrie. Une photo prise dans un dépôt des « rebelles » montre des caisses de munitions de 106mm pour canons sans recul M-40 et M-40 A1, avec une marque  attestant la provenance libyenne. Avec son plan pour la Libye, l’Italie contribue ainsi à la « transition démocratique » de la Syrie.

Manlio Dinucci

Edition de mardi 25 juin 2013 de il manifesto

Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

 « Quatrième rive » était une expression de la période fasciste pour désigner la colonie italienne de l’époque, la Libye, qui venait s’ajouter aux trois autres rives -adriatique, tyrrhénienne et ionique- du territoire italien.

Manlio Dinucci est géographe et journaliste

mardi, 25 juin 2013

P. Scholl-Latour: “L’Occident s’allie avec Al-Qaeda”

“L’Occident s’allie avec Al-Qaeda”

Peter Scholl-Latour, le grand expert allemand sur le Proche et le Moyen Orient s’exprime sur la guerre civile syrienne, sur le rôle de l’Europe et des Etats-Unis, sur le programme nucléaire iranien qui suscite bien des controverses...

Entretien avec Peter Scholl-Latour

PSLatour.jpgQ.: En Syrie, l’armée vient de reprendre un bastion des rebelles, la ville de Qussayr et a enregistré d’autres succès encore. Ces victoires représentent-elles un tournant dans cette guerre civile atroce, cette fois favorable à Bechar El-Assad?

PSL: Jamais la situation n’a vraiment été critique pour le Président El-Assad, contrairement à ce qu’ont toujours affirmé nos médias. Il y a bien sûr des villages qui sont occupés par les rebelles; des frontières intérieures ont certes été formées au cours des événements mais on peut difficilement les tracer sur une carte avec précision. La Syrie ressemble dès lors à une peau de léopard. Aucun chef-lieu de province n’est tombé aux mains des rebelles, bien que bon nombre d’entre eux soient entourés de villages hostiles à El-Assad. Il est tout aussi faux d’affirmer que tous les Sunnites sont des adversaires d’El-Assad, et la chute d’une place forte stratégique aussi importante que Qussayr est bien entendu le fruit d’une coopération avec le Hizbollah libanais.

Q.: Le Liban sera-t-il encore plus impliqué dans la guerre civile syrienne qu’auparavant? 

PSL: Le Liban est profondément impliqué! Quand j’étais à Tripoli dans le Nord du pays, il y a trois ans, des coups de feu s’échangeaient déjà entre les quartiers alaouites et sunnites. La ville de Tripoli a toujours été considérée comme le principal bastion au Liban de l’islam rigoriste et, pour l’instant, on ne sait pas encore comment se positionneront vraiment les chrétiens. On peut cependant prévoir qu’ils en auront bien vite assez de la folie des rebelles syriens, dont le slogan est le suivant: “Les chrétiens à Beyrouth, les alaouites au cimetière!”.

Q.: L’UE vient encore de prolonger l’embargo sur les armes contre la Syrie, vu que l’Europe ne montre aucune unité diplomatique ou stratégique. Peut-on considérer cette posture comme un prise de position inutile de la part de l’UE?

PSL: Les Européens montrent une fois de plus une image lamentable, surtout les Français et les Anglais. Cette image lamentable, à mes yeux, se repère surtout dans la tentative maladroite des Français de prouver que le régime d’El-Assad utilise des gaz de combat, affirmation purement gratuite car il n’y a pas l’ombre d’une preuve. Cependant, les seuls qui auraient un intérêt à utiliser des gaz, même en proportions très limitées, sont les rebelles, car Obama a déclaré naguère que l’utilisation de telles armes chimiques constituerait le franchissement d’une “ligne rouge”, permettant à l’Occident d’intervenir.

Q.: L’Occident pourra-t-il encore intervenir, surtout les Etats-Unis, même sans utiliser de troupes terrestres et en imposant militairement une zone interdite aux avions d’El-Assad?

PSL: Les Américains ne sont pas prêts, pour le moment, à franchir ce pas parce qu’ils ne veulent pas s’impliquer encore davantage dans les conflits du Proche Orient et surtout parce qu’ils en ont assez du gâchis libyen. L’Occident a certes connu une forme de succès en Libye, en provoquant la chute de Khadhafi, mais le pays est plongé depuis lors dans un inextricable chaos dont ne perçoit pas la fin. En Cyrénaïque, plus précisément à Benghazi, où l’on a cru naïvement qu’un soulèvement pour la démocratie avait eu lieu, l’ambassadeur des Etats-Unis a été assassiné. On aurait parfaitement pu prévoir ce chaos car la Cyrénaïque a toujours été, dans l’histoire, la province libyenne la plus travaillée par l’islamisme radical.

On a cru tout aussi naïvement que des élections allaient amener au pouvoir un gouvernement modéré et pro-occidental, mais on n’a toujours rien vu arriver... Les luttes acharnées qui déchirent la Libye sont organisées par les diverses tribus qui ont chacune leurs visions religieuses propres.

Q.: L’Occident soutient les rebelles en Syrie tandis que la Russie se range derrière El-Assad. Peut-on en conclure que, vu les relations considérablement rafraîchies aujourd’hui entre l’Occident et la Russie, la guerre civile syrienne est une sorte de guerre russo-occidentale par partis syriens interposés?

PSL: Bien sûr qu’il s’agit d’une guerre par partis syriens interposés: les Russes se sont rangés derrière El-Assad, comme vous le dites, de même que l’Iran et le premier ministre irakien Nouri Al-Maliki. La frontière entre la Syrie et la Turquie est complètement ouverte, ce qui permet aux armes, aux volontaires anti-Assad et aux combattants d’Al Qaeda de passer en Syrie et de renforcer le camp des rebelles. De plus, en Turquie, on entraîne des combattants tchétchènes, ce qui me permet de dire que l’Occident s’est bel et bien allié à Al-Qaeda.

Q.: Quelles motivations poussent donc les Turcs? Sont-ils animés par un rêve de puissance alimenté par l’idéologie néo-ottomane?

PSL: Selon toute vraisemblance, de telles idées animent l’esprit du premier ministre turc Erdogan. Mais, depuis peu, des troubles secouent toute la Turquie, qu’il ne faut certes pas exagérer dans leur ampleur parce qu’Erdogan est bien installé au pouvoir, difficilement délogeable, ne peut être renversé. Mais les événements récents égratignent considérablement l’image de marque de la Turquie, telle qu’elle avait été concoctée pour le public européen, celle d’un pays à l’islam tolérant, exemple pour tout le monde musulman. Cette vision vient d’éclater comme une baudruche. Mais les véritables inspirateurs des rebelles syriens sont les Saoudiens, dont la doctrine wahhabite est précisément celle des talibans.

Q.: L’Autriche va retirer ses casques bleus du Golan. On peut dès lors se poser la question: la mission de l’ONU dans cette région pourra-t-elle se maintenir? Si la zone-tampon disparaît, ne peut-on pas craindre une guerre entre Israël et la Syrie?

PSL: Pour les Israéliens, ce serait stupide de déclencher une guerre, ce serait une erreur que personne ne comprendrait car depuis la fin de la guerre du Yom Kippour, il y a près de quarante ans, il n’y a pas eu le moindre incident sur la frontière du Golan. J’ai visité là-bas les casques bleus autrichiens et ils ne m’ont pas mentionné le moindre incident. Aujourd’hui toutefois les échanges de tirs ont commencé et les groupes islamistes extrémistes s’infiltrent; il vaut donc mieux que les Autrichiens, qui ont l’ordre de ne jamais tirer, se retirent au plus vite.

Q.: Mais alors une guerre entre Israéliens et Syriens devient possible...

PSL: Israël a une idée fixe: la grande menace viendrait de l’Iran, ce qui est une interprétation totalement erronée. Si les rebelles ont le dessus en Syrie, Israël aura affaire à des islamistes sunnites sur les hauteurs du Golan. Bien sûr, on me rétorquera que le Hizbollah chiite du Liban est, lui aussi, sur la frontière avec Israël, mais il faut savoir que le Hizbollah est une armée disciplinée. Sa doctrine est aussi beaucoup plus tolérante qu’on ne nous l’a dépeinte dans les médias occidentaux: par exemple, dans les régions tenues par le Hizbollah, il n’y a jamais eu de persécutions contre les chrétiens; les églises y sont ouvertes et les statues mariales y demeurent dressées. Toutes choses impensables en Arabie Saoudite, pays qui est un de nos chers alliés, auquel l’Allemagne ne cesse de fournir des chars de combat... Nous vivons à l’heure d’une hypocrisie totale.

Q.: Vous venez d’évoquer l’Iran: un changement de cap après les présidentielles est fort peu probable, surtout si la figure de proue religieuse demeure forte en la personne de Khamenei...

PSL: On a largement surestimé Ahmadinedjad. Il a certes dit quelques bêtises à propos d’Israël mais dans le monde arabe il y a bien d’autres hommes politiques qui ont dit rigoureusement la même chose, sans que les médias occidentaux n’aient jugé bon de lancer des campagnes d’hystérie. Certes, le zèle religieux est bien repérable chez les Chiites d’Iran et, dans les villes surtout, le nationalisme iranien est une force politique considérable. Si un conflit éclate, l’Iran n’est pas un adversaire qu’il s’agira de sous-estimer.

Q.: Le programme nucléaire iranien, si contesté, est aussi et surtout l’expression d’un nationalisme iranien...

PSL: On ne peut prédire si l’Iran se dotera d’un armement nucléaire ou non. Mais on peut émettre l’hypothèse qu’un jour l’Iran deviendra une puissance nucléaire. Cela ne veut pas dire que l’Iran lancera des armes atomiques contre ses voisins car Téhéran considèrera cet armement comme un atout dissuasif, comme tous les autres Etats qui en disposent. L’Iran, tout simplement, est un Etat entouré de voisins plus ou moins hostiles et aimerait disposer d’un armement atomique dissuasif.

Propos recueillis par Bernhard Tomaschitz.

(entretien paru dans “zur Zeit”, Vienne, n°24/2013).

dimanche, 16 juin 2013

Roland Dumas : les Anglais préparaient la guerre en Syrie deux ans avant les manifestations en 2011

 

Roland Dumas : les Anglais préparaient la guerre en Syrie deux ans avant les manifestations en 2011

dimanche, 26 mai 2013

Algérie : danger extrême tous azimuts

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Algérie : danger extrême tous azimuts

Un après-Bouteflika de tous les périls

Jean Bonnevey
Ex: http://www.metamag.fr/

On ne sait pas ce que va devenir l’Egypte sans Moubarak ni la Tunisie sans Ben Ali. La Libye n' existe plus en tant qu’état organisé depuis la fin de Kadhafi. Les conséquences de la chute de Saddam Hussein terrorisent même ceux qui veulent la peau d’Assad.
 
Et voila qu’il va falloir  affronter les conséquences imprévisibles de la fin annoncée du règne de Bouteflika. L’Algérie tenue d’une main de fer par son inusable président n’a pas connu les printemps arabes. Le régime a tenu et reste un pays de type socialiste s’appuyant sur un parti ultra dominant et une caste militaire omniprésente, avec cependant une presse étrangement libre, du moins jusqu’à présent. Tout cela est sous la menace continue d’islamistes et de la déstabilisation des frontières sahéliennes de l’Algérie.
 
Tout le monde s’accommodait donc de Bouteflika, mais maintenant, c’est quasiment sûr, il va falloir s’en passer. L'état de santé du président algérien Abdelaziz Bouteflika, hospitalisé depuis plus de trois semaines à Paris à la suite d'un mini-AVC, selon les sources officielles, suscite des rumeurs alarmistes en Algérie, alimentées par les propos officiels rassurants mais  très évasifs, à un an de la présidentielle. Il est normal que la population s’interroge. Le pouvoir pratique une omerta dangereuse.
 
En l'absence de publication d'un bulletin de santé du président âgé de 76 ans, transporté le 27 avril à l'hôpital militaire parisien du Val de Grâce, la presse algérienne s'interroge avec prudence tous les matins sur ce sujet tabou. « Mon journal » et son pendant arabophone « Djaridati » ont fait l'expérience de la censure, une première en Algérie depuis une dizaine d'années. Ce qui est révélateur. Ils n'ont pu être imprimés pour avoir consacré leur Une à un dossier sur une "détérioration" de l'état de santé du chef d'État, citant "des sources médicales françaises et des proches de la présidence algérienne".

 
Des voix s'élèvent déjà, dont celle d'Abderrezak Mokri, nouveau chef du parti islamiste, proche des Frères musulmans, Mouvement de la société pour la paix (MSP) pour réclamer l'application de l'article 88 de la Constitution. Les islamistes sont bien en embuscades comme partout. Le 88 stipule qu'en cas de "maladie grave et durable" du président qui "se trouve dans l'impossibilité totale d'exercer ses fonctions", le Conseil Constitutionnel propose à l'unanimité "au Parlement de déclarer l'état d'empêchement", ce qui nécessite une majorité des deux-tiers des voix. Le président du Conseil de la Nation (Sénat), en l'occurrence aujourd'hui Abdelkader Bensalah (70 ans) est alors chargé de l'intérim durant un maximum de 45 jours. Après ce délai, "il est procédé à une déclaration de vacance par démission de plein droit" du chef de l'Etat et le président du Sénat doit alors en moins de 60 jours organiser l'élection présidentielle. Cela bien sûr si tout se passe bien, ce dont on peut douter. Car tout est possible, explosion populaire, subversion  islamiste, prise en main par l’armée appuyée par le Fln, tentatives de sécession berbère etc.
 
Rien  de tout cela n’enchante personne

Le Maroc est le premier intéressé dans ses relations conflictuelles permanentes avec l’Algérie autour du Sahara. La Tunisie et la Libye aussi. Mais l’inquiétude est également  à Washington et à Paris. A Washington où l’on avait fait de l’Algérie de Bouteflika, non sans imprudence, une pièce maitresse de la lutte contre la contagion islamiste en Afrique du nord et dans la région sub-saharienne.
 
Paris qui avait eu besoin  de la complaisance de l’Algérie pour sa campagne militaire au Mali à des sueurs froides. Il est bien  évident qu’un changement de donne à Alger pourrait rendre plus fragile les plans français  de retrait du mali et d’organisations d élections.
 
Sans oublier qu’au regard de la très importante communauté algérienne en France, de nationalité française ou non, car ça ne change pas grand chose sauf pour les harkis et les plus intégrés, un conflit pour le pouvoir à Alger ne pourrait qu’avoir des répercutions dans les banlieues déjà sensibles d’une France toujours liée sinon à l’Algérie, au moins aux algériens et à la politique algérienne.
 
Pour certains la guerre d Algérie n’est pas terminée ou a été terminée de telle façon qu’elle continue dans un contexte différent et pour longtemps à peser sur la France et les français.

vendredi, 24 mai 2013

Infoavond met Fernand Keuleneer in Leuven

Infoavond

met Fernand Keuleneer

in Leuven

31 mei 2013



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Vrijdag 31 mei 2013 om 20 uur

Infoavond

Syrië, een typisch 21ste-eeuws conflict?

Beschouwingen over internationaal recht, mensenrechten, republiek en religie

Met als gastspreker:

Fernand KEULENEER

Advocaat aan de balie te Brussel

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Plaats: Stellazaal Café Tempo

Baron August de Becker Remyplein 52

3010 Kessel-Lo.

Aan de achterkant van het station van Leuven.

Vrije toegang mits twee consumpties per persoon.

Organisatie: Mediawerkgroep Syrië – Email: info@MWSyria.com – Blog: http://MWSyria.com – Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria – Twitter: @MWSyria

 

samedi, 18 mai 2013

Syrie : Israël joue avec le feu islamiste

Syrie : Israël joue avec le feu islamiste

Ils sont nombreux les « idiots utiles » des fous d’Allah


Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr/

Il est évident que Tel Aviv s’inquiète à juste titre de l’implication de l’Iran dans le conflit syrien et d’un éventuel renforcement du Hezbollah libanais. Il n’en reste pas moins que son intervention militaire directe dans cette guerre civile la transforme en déflagration régionale. Israël prend des risques et joue avec le feu. A quoi servirait d’affaiblir les chiites radicaux du Liban si la conséquence est la prise du pouvoir à Damas par des sunnites fanatiques et proches de la mouvance Al-Qaïda. On pourrait reprendre la formule « ni Allal, ni casher » adaptée de celle de Churchill sur la destruction de l’Allemagne nazie renforçant la menace soviétique « on a tué le mauvais cochon ».
 

Une intervention contestable
 
"Selon un nouveau bilan, au moins 42 soldats ont été tués et le sort d'une centaine d'autres est inconnu à la suite du raid israélien", a déclaré Rami Abdel Rahmane, directeur de l'Observatoire syrien des droits de l'homme (OSDH). Un premier bilan faisait état de 15 morts. Selon Rami Abdel Rahmane, les trois sites visés par les Israéliens "comptent 150 hommes, mais on ignore si tous s'y trouvaient lors du raid". Les autorités syriennes n'ont, jusqu'à présent, donné aucun bilan officiel, mais le ministère des Affaires étrangères dans une lettre à l'ONU avait affirmé que "cette agression avait causé des morts et des blessés et des destructions graves dans ces positions et dans des régions civiles proches". L’opposition syrienne  s’inquiète donc elle aussi de l’intervention israélienne.
 
Le retour des armes chimiques
 
La Commission d’enquête internationale indépendante sur la Syrie, mandatée par l’ONU, a affirmé lundi qu’elle «n’avait pas obtenu de résultats permettant de conclure que des armes chimiques ont été utilisées par les parties au conflit». «En conséquence et à ce jour la Commission n’est pas en mesure de commenter davantage ces allégations», ajoute un communiqué qui apparaît comme un désaveu des déclarations dimanche à la presse d’un de ses membres, le procureur suisse Carla del Ponte, qui a parlé d’usage de gaz sarin par les rebelles.
 

Général iranien Ahmad-Reza Pourdastan

Del Ponte, qui dans ses précédents mandats, notamment en tant que procureur du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie (TPIY), s’était faite remarquer par des déclarations radicales aux médias, avait affirmé dimanche soir à la chaîne de télévision publique suisse du Tessin, avoir vu un rapport sur «des témoignages recueillis concernant l’utilisation d’armes chimiques, en particulier de gaz neurotoxique, par les opposants et non par le gouvernement».
L’idole des traqueurs de criminel de guerre ne devient plus crédible quand elle témoigne en défaveur des «  gentils auto-proclamés ». Y aurait-il une justice internationale elle aussi politisée ?
 

Carla Del Ponte et Rami Abdel Rahmane
 
Pour Damas, les raids israéliens prouvent que les rebelles sont «les outils d’Israël à l’intérieur» du pays. Et «la communauté internationale doit savoir que la situation dans la région est devenue plus dangereuse après l’agression», a déclaré le ministre de l’Information Omrane al-Zohbi. «Le gouvernement syrien confirme que cette agression ouvre largement la porte à toutes les possibilités», a-t-il ajouté. La télévision syrienne a annoncé en soirée que «les missiles étaient prêts pour frapper des cibles précises en cas de violation», sans plus de précisions.
 
Dans sa lettre à l’ONU, Damas a accusé l’État hébreu d’appuyer les rebelles, notamment le Front Al-Nosra, branche syrienne d’Al-Qaïda. De son côté, l’Armée syrienne libre (ASL, rebelles) a estimé que ses opérations n’étaient «pas liées aux raids israéliens ou à autre chose» tandis que la Coalition de l’opposition a condamné le raid israélien mais accusé le régime d’être responsable de l’affaiblissement de l’armée qu’il utilise «contre la population». L’Iran a aussitôt répliqué par la voix du commandant de l’armée de terre, le général Ahmad-Reza Pourdastan, qui s’est dit prêt à «entraîner» l’armée syrienne.
 
Il n’y a pas qu’Israël bien sûr qui joue avec le feu.

The System Against Syria . . . & Russia

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The Hollow Empire
The System Against Syria . . . & Russia

By Gregory Hood 

Ex: http://www.counter-currents.com/

In the wake of the Boston bombing, there was some hope among the dwindling number of true believing conservatives that the long awaited Grand Alliance Against Jihad would finally come to fruition.

The news that Russian intelligence had warned [2] the FBI about Tamerlan Tsarnaev and subsequent raids [3] on Muslim “extremists” within Russia prompted a flurry of activity on conservative websites. The emerging motif within the American Right is that Vladimir Putin may be a sinister tyrant and anti-American (and a Communist from the KGB!), but he’s at least a serious and competent national leader who recognizes the threat of Islamic terrorism. The reaction at the grassroots forum FreeRepublic to the news that Secretary of State John Kerry was kept waiting in Moscow was laughter [4], rather than patriotic fury. As President Putin patiently lectures Barack Obama to the delight [5] of conservative chatterers, at least some of the hoi polloi of the American Right are dreaming about the Red Army and the 101st Airborne joining forces to romp through Grozny.

Keep dreaming.

The result of the Boston bombing will not be a Russian-American rapprochement. Instead, it will lead to an acceleration of The System’s efforts to encircle Russia, especially by increasing aid to “rebels” opposed to Russian ally and Syrian President Bashar al-Assad.

More importantly, it is the foreign policy experts of Conservatism Inc. that are leading the way. Senator John McCain, taking a break from his work pushing a nation-breaking amnesty as part of the “Gang of Eight,” is calling for “game-changing [6]” aid to the rebels in Syria. Senator Lindsey Graham is going further, calling for ground troops to secure supposed chemical [7] weapons.

Meanwhile, among the conservative press, the talking heads are sensing an opportunity to attack President Barack Obama for being “weak.” Charles Krauthammer repeatedly mocks [8] Obama’s impotence in the face of Syria crossing his “red line” by using weapons of mass destruction. National Review has called [9] for military aid to the rebels, but don’t worry, only the “secular,” non-militant ones. And of course, the Weekly Standard moans [10] that Obama has failed to “topple an Iranian ally,” but rejoices that our “strategic ally” Israel has begun bombing the country. If Conservatism Inc. has a core message, it’s that President Obama is not “strong” enough.

What makes it almost funny is that it’s Bashar al-Assad who explicitly laid out what is likely to happen. Assad warned that the West paid heavily for supporting Al Qaeda in Afghanistan, and it is now supporting it in Syria. The cost will come in the “heart of Europe and the United States.” This is precisely what happened in Boston, when years of extensive American support [11] for Muslim rebels in Chechnya evidently did nothing to endear Chechnyan immigrants to the American way of life, any more than tens of thousands of dollars in welfare.

The truth is that whatever one says about Bashar al-Assad, the opposition at this point in time is precisely who he said it was at the beginning – Muslim extremists allied with Al Qaeda, openly hostile to the West. Furthermore, Assad’s stubborn hold on power is fueled by his stalwart defense of minority communities within Syria, especially Christians. Finally, while the best the United States can say is that it has “varying degrees of confidence” that Assad used chemical weapons, the United Nations is hearing testimony that it was the rebels [12] who used sarin gas on civilians. Not surprisingly, it’s also the rebels who have heroically taken UN peacekeepers hostage [13], to the utter indifference of those who usually care about such things.

American hawks, led by the supposedly anti-jihadist conservatives, seem blithely unconcerned about all of this. Of course, we just saw this movie in Libya. The glorious Libyan revolution led to the outright murder of an American ambassador and other American officials. Only Congressional Republicans seem to care, and are widely mocked by the media for doing so. Muammar al-Gaddafi of course, was a largely secular dictator who had openly declared his allegiance with the United States during the War on Terrorism. This didn’t stop America from helping his enemies butcher him and anally rape his corpse with a knife. Today, Islamic radicals are far more powerful in Libya than they were before Gaddafi’s fall. Bernard-Henri Lévy, the “French” Jew who helped lead the effort to overthrow the government, is today banned from the country because he is a Jew [14].

It’s not about terrorism, or democracy, or even Israel. American foreign policy is already post-American, designed to break down any centers that show signs of independence from the international financial system of Wall Street and London. It is no coincidence that Gaddafi suddenly fell from favor when he began to move away [15] from trading oil in dollars. Syria also represents a territory that still has a degree of real independence from the global banking system. It is for that reason it must be broken. Geopolitically, Russia is the final target, as its large energy reserves and nationally conscious ruling class prevent it from being simply absorbed into the system of financial control that rules the West.

But what do American neoconservatives, the true believers of Empire, think about all this? On the surface, Barack Obama has actually strengthened the “jihad,” presiding over the fall of largely secular governments in states like Egypt, welcoming the rise of the Muslim Brotherhood to power, and actively continuing American military aid. Sure enough, accusations that Obama is naive at best and malevolent at worst are a largely consistent feature of the American Right’s take on his foreign policy. However, this paranoia about a Muslim Brotherhood caliphate supposedly uniting the Middle East misses the reality that these states are actually far weaker, and less independent, than they were previously.

A leader like Assad or Saddam Hussein is able to use his personality and ideology to make his regime the focus of loyalty among the population. In Egypt, while the Muslim Brotherhood has achieved political power, it has having a hard time [16] consolidating its rule. While Iran represents a unity of political, religious, and economic sovereignty under an ideologically oriented and permanent regime, Egypt is still up for grabs. Under the “open society,” the controlled media, civil society groups under the control of George Soros or the U.S. State Department, and an army of international activists are free to manipulate the system from the top down. Even if there are short term gains for so called “radical” Islam, the growth of sharia law in Egypt does not threaten the power of international finance, any more than the growth of sharia law in neighborhoods of Copenhagen or Denmark. What does threaten international finance is a nationally (or worse, ethnically) conscious people, united under nationally conscious leadership that is willing and able to wield state power.

On a global scale, Russia is leading this resistance. Putin’s decision to ban the “pro-democracy” groups and foreign activists responsible for the “color coded” revolutions in Eastern Europe marked his transition to an anti-American “bad guy” in the eyes of the media. Whatever his (many) failings, Putin insists on his idea of “sovereign democracy” and the survival of Russia as a self-conscious entity. This is echoed in Assad’s pronouncement that he has no alternative but victory, as if he loses, “Syria is finished” in the same way that Iraq today is simply a geographic expression. Talk of Islamization, terrorism, or who is “pro-Western” or “anti-Western” conceals the real agenda. In the world of the future, peoples are to have no collective existence, aside from a token form allowed to non-whites who are incapable of maintaining any real independence.

While it’s comforting to believe that the American Empire is on its last legs, there’s little to suggest that the geopolitical position of the United States is actually growing weaker. Serbia has long since fallen, stripped of Kosovo, and voted into the anti-European Union after an international propaganda campaign. Iraq has fallen. Syria is on the brink. Despite the drones patrolling entire regions of the world, the American military is actually remarkably restrained considering the country’s actual potential. The country’s current military expenditures of about 4.5 percent of GDP is well below [17] the 45 year average. If pressed, the United States could easily expand its military.

Patriotic American conservatives are the essential bulwark to this system. They fight the wars, as the combat arms and Special Forces are still overwhelmingly white. They provide the intellectual justification for interventions around the world. They salute the flag and promote the idea of the military as an honorable profession. Nonetheless, what is driving American foreign policy is something beyond imperialism, capitalism, or even the frenzy for white dispossession. We are moving towards an end game that is openly discussed and openly defended. That end game is precisely what was defined in Francis Fukuyama’s The End of History and the Last Man, the “Open Society,” rule by finance and media, worldwide, forever.

Such an agenda has nothing to do with any recognizable form of American patriotism, but this does not stop American conservatives from seeking to marshal what is left of the traditional American nation for one final democratic crusade. As Mitt Romney maintained, Russia is our “number one geopolitical foe.” Perhaps the most important reason that American conservatives must never be allowed to regain power is that they truly believe their own propaganda when it comes to foreign policy. After all, the only things the American conservative movement has to show for its unlimited control of the American government in the early 21st century are upper class tax cuts, and the Iraq War.

Where does leave the North American New Right? The system is anti-White, but it is more than that. As Noam Chomsky said [18],

Capitalism basically wants people to be interchangable cogs, and differences among them, such as on the basis of race, usually are not functional. I mean, they may be functional for a period, like if you want a super exploited workforce or something, but those situations are kind of anomalous. Over the long term, you can expect capitalism to be anti-racist — just because its anti-human. And race is in fact a human characteristic — there’s no reason why it should be a negative characteristic, but it is a human characteristic. So therefore identifications based on race interfere with the basic ideal that people should be available just as consumers and producers, interchangable cogs who will purchase all the junk that’s produced — that’s their ultimate function, and any other properties they might have are kind of irrelevent, and usually a nuisance. (Noam Chomsky, Understanding Power: The Indispensable Chomsky [New York: The New Press, 2002], pp. 88–89)

The critical divide between the System and those forces against it is the question of sovereignty. The System seems to break apart any collective identity or defense by peoples against the global power structure of finance and media. America is the iron fist that facilitates this transition, enabled by the useful idiots of the American Right. Israel, as the nationalist state of the “Chosen” is the one permitted exception, but even their ethnostate may be caught in the larger pattern and break down in the long term. In the end, Muslim or Christian, white or black, you will be assimilated [19].

Russia is not some lost ideal for the North American New Right, Putin is not some nationalist paragon, and Russian exports like the Fourth Political Theory are not some glorious path to victory for us. Nonetheless, the only geopolitical imperative that matters today is the ability of states and abilities to secure an independent existence from this system. Without this potential, even talking about ethnostates and White Republics misses the point. For that reason, states as diverse as Chávez’s Venezuela [20], Iran, and above all Syria deserve our attention. Breaking patriotic American conservatives away from their minders at Conservatism Inc. is a critical strategic objective. The Boston bombing is an opening.

Syria is not just fighting against Al Qaeda and hypocritical Zionism in defense of Christian minorities. It’s fighting in defense of the idea that peoples – any peoples at all – have the right to exist. White American conservatives [21] have to decide if they would rather be the vanguard of the Hollow Empire – or a people in their own right.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2013/05/the-hollow-empirethe-system-against-syria-and-russia/

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2013/05/AssadPutin.jpg

[2] warned: http://www.cbn.com/cbnnews/world/2013/April/Russia-Warned-US-Boston-Suspect-a-Follower-of-Islam/

[3] raids: http://freerepublic.com/focus/f-news/3013410/posts

[4] laughter: http://freerepublic.com/focus/f-news/3016778/posts

[5] delight: http://www.thegatewaypundit.com/2013/04/vladamir-putin-lectures-obama-on-radical-islam-during-phone-call/

[6] game-changing: http://www.huffingtonpost.com/2013/05/05/mccain-syria-rebels-aid_n_3218839.html

[7] chemical: http://www.washingtonpost.com/blogs/post-politics/wp/2013/04/28/mccain-boots-on-the-ground-in-syria-the-worst-thing-the-united-states-could-do/

[8] mocks: http://www.realclearpolitics.com/video/2013/04/30/krauthammer_on_obamas_response_to_chemical_weapons_in_syria_chain_of_custody_what_is_this_csi_damascus.html

[9] called: http://www.nationalreview.com/article/347270/al-assad-crosses-red-line

[10] moans: http://www.weeklystandard.com/keyword/Syria

[11] support: http://www.theamericanconservative.com/chechens-and-american-hawks-an-interesting-alliance/

[12] rebels: http://www.reuters.com/article/2013/05/05/us-syria-crisis-un-idUSBRE94409Z20130505

[13] hostage: http://www.foxnews.com/world/2013/05/07/4-un-peackeepers-detained-by-armed-men-in-syria/

[14] because he is a Jew: http://blogs.the-american-interest.com/wrm/2013/03/26/prominent-jew-banned-from-libya-he-helped-make/

[15] move away: http://www.thenewamerican.com/economy/markets/item/4630-gadhafi-s-gold-money-plan-would-have-devastated-dollar

[16] hard time: http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/70632/Egypt/Politics-/Hundreds-protest-Brotherhoodisation-of-Alexandria-.aspx

[17] below: http://www.google.com/imgres?imgurl=http://blog.heritage.org/wp-content/uploads/2008/03/defense-spending-and-gdp.gif&imgrefurl=http://www.forbes.com/sites/aroy/2012/03/12/how-health-care-spending-strains-the-u-s-military/&h=340&w=750&sz=14&tbnid=vd4URV-1Uvml1M:&tbnh=63&tbnw=138&zoom=1&usg=__1QyLeRBzLPrBuUM4v-Fc78kZXBc=&docid=KVwmIU-HhnzHhM&hl=en&sa=X&ei=sLmLUeyrObO50QHSzoHYBg&ved=0CGAQ9QEwBg&dur=351

[18] said: http://www.newrightausnz.com/2005/11/28/big-business-as-a-supporter-of-anti-racism-noam-chomsky/

[19] you will be assimilated: http://alternativeright.com/blog/2013/4/30/resistance-is-futile

[20] Venezuela: http://www.counter-currents.com/2013/03/two-cheers-for-chavez/

[21] White American conservatives: http://www.counter-currents.com/2012/11/a-white-nationalist-memo-to-white-male-republicans/

vendredi, 10 mai 2013

Le Qatar, champion du mensonge et de la dissimulation

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Le Qatar, champion du mensonge et de la dissimulation

Majed Nehmé
 
Ex: http://www.legrandsoir.info/
 

AFRIQUE-ASIE : Sans sponsors et en toute indépendance, à contre-courant des livres de commande publiés récemment en France sur le Qatar, Nicolas Beau et Jacques-Marie Bourget* ont enquêté sur ce minuscule État tribal, obscurantiste et richissime qui, à coup de millions de dollars et de fausses promesses de démocratie, veut jouer dans la cour des grands en imposant partout dans le monde sa lecture intégriste du Coran. Un travail rigoureux et passionnant sur cette dictature molle, dont nous parle Jacques-Marie Bourget.

Écrivain et ancien grand reporter dans les plus grands titres de la presse française, Jacques-Marie Bourget a couvert de nombreuses guerres : le Vietnam, le Liban, le Salvador, la guerre du Golfe, la Serbie et le Kosovo, la Palestine… C’est à Ramallah qu’une balle israélienne le blessera grièvement. Grand connaisseur du monde arabe et des milieux occultes, il publiait en septembre dernier avec le photographe Marc Simon, Sabra et Chatila, au cœur du massacre (Éditions Érick Bonnier, voir Afrique Asie d’octobre 2012)

Nicolas Beau a longtemps été journaliste d’investigation à Libération, au Monde et au Canard Enchainé avant de fonder et diriger le site d’information satirique français, Bakchich. info. Il a notamment écrit des livres d’enquêtes sur le Maroc et la Tunisie et sur Bernard-Henri Lévy.

Qu’est-ce qui vous a amenés à consacrer un livre au Qatar ?

Le hasard puis la nécessité. J’ai plusieurs fois visité ce pays et en suis revenu frappé par la vacuité qui se dégage à Doha. L’on y a l’impression de séjourner dans un pays virtuel, une sorte de console vidéo planétaire. Il devenait intéressant de comprendre comment un État aussi minuscule et artificiel pouvait prendre, grâce aux dollars et à la religion, une telle place dans l’histoire que nous vivons. D’autre part, à l’autre bout de la chaîne, l’enquête dans les banlieues françaises faite par mon coauteur Nicolas Beau nous a immédiatement convaincus qu’il y avait une stratégie de la part du Qatar enfin de maîtriser l’islam aussi bien en France que dans tout le Moyen-Orient et en Afrique. D’imposer sa lecture du Coran qui est le wahhabisme, donc d’essence salafiste, une interprétation intégriste des écrits du Prophète. Cette sous-traitance de l’enseignement religieux des musulmans de France à des imams adoubés par le Qatar nous a semblé incompatible avec l’idée et les principes de la République. Imaginez que le Vatican, devenant soudain producteur de gaz, profite de ses milliards pour figer le monde catholique dans les idées intégristes de Monseigneur Lefebvre, celles des groupuscules intégristes qui manifestent violement en France contre le « mariage pour tous ». Notre société deviendrait invivable, l’obscurantisme et l’intégrisme sont les meilleurs ennemis de la liberté.

Sur ce petit pays, nous sommes d’abord partis pour publier un dossier dans un magazine. Mais nous avons vite changé de format pour passer à celui du livre. Le paradoxe du Qatar, qui prêche la démocratie sans en appliquer une seule once pour son propre compte, nous a crevé les yeux. Notre livre sera certainement qualifié de pamphlet animé par la mauvaise foi, de Qatar bashing… C’est faux. Dans cette entreprise nous n’avons, nous, ni commande, ni amis ou sponsors à satisfaire. Pour mener à bien ce travail, il suffisait de savoir lire et observer. Pour voir le Qatar tel qu’il est : un micro-empire tenu par un potentat, une dictature avec le sourire aux lèvres.

Depuis quelques années, ce petit émirat gazier et pétrolier insignifiant géopolitiquement est devenu, du moins médiatiquement, un acteur politique voulant jouer dans la cour des grands et influer sur le cours de l’Histoire dans le monde musulman. Est-ce la folie des grandeurs ? Où le Qatar sert-il un projet qui le dépasse ?

Il existe une folie des grandeurs. Elle est encouragée par des conseillers et flagorneurs qui ont réussi à convaincre l’émir qu’il est à la fois un tsar et un commandeur des croyants. Mais c’est marginal. L’autre vérité est qu’il faut, par peur de son puissant voisin et ennemi saoudien, que la grenouille se gonfle. Faute d’occuper des centaines de milliers de kilomètres carrés dans le Golfe, le Qatar occupe ailleurs une surface politico-médiatique, un empire en papier. Doha estime que cette expansion est un moyen de protection et de survie.

Enfin il y a la religion. Un profond rêve messianique pousse Doha vers la conquête des âmes et des territoires. Ici, on peut reprendre la comparaison avec le minuscule Vatican, celui du xixe siècle qui envoyait ses missionnaires sur tous les continents. L’émir est convaincu qu’il peut nourrir et faire fructifier une renaissance de la oumma, la communauté des croyants. Cette stratégie a son revers, celui d’un possible crash, l’ambition emportant les rêves du Qatar bien trop loin de la réalité. N’oublions pas aussi que Doha occupe une place vide, celle libérée un temps par l’Arabie Saoudite impliquée dans les attentats du 11-Septembre et contrainte de se faire plus discrète en matière de djihad et de wahhabisme. Le scandaleux passe-droit dont a bénéficié le Qatar pour adhérer à la Francophonie participe à cet objectif de « wahhabisation » : en Afrique, sponsoriser les institutions qui enseignent la langue française permet de les transformer en écoles islamiques, Voltaire et Hugo étant remplacés par le Coran.

Cette mégalomanie peut-elle se retourner contre l’émir actuel ? Surtout si l’on regarde la brève histoire de cet émirat, créé en 1970 par les Britanniques, rythmée par des coups d’État et des révolutions de palais.

La mégalomanie et l’ambition de l’émir Al-Thani sont, c’est vrai, discrètement critiquées par de « vieux amis » du Qatar. Certains, avançant que le souverain est un roi malade, poussent la montée vers le trône de son fils désigné comme héritier, le prince Tamim. Une fois au pouvoir, le nouveau maître réduirait la voilure, notamment dans le soutien accordé par Doha aux djihadistes, comme c’est le cas en Libye, au Mali et en Syrie. Cette option est même bien vue par des diplomates américains inquiets de cette nouvelle radicalité islamiste dans le monde. Alors, faut-il le rappeler, le Qatar est d’abord un instrument de la politique de Washington avec lequel il est lié par un pacte d’acier.

Cela dit, promouvoir Tamim n’est pas simple puisque l’émir, qui a débarqué son propre père par un coup d’État en 1995, n’a pas annoncé sa retraite. Par ailleurs le premier ministre Jassim, cousin de l’émir, le tout-puissant et richissime « HBJ », n’a pas l’intention de laisser un pouce de son pouvoir. Mieux : en cas de nécessité, les États-Unis sont prêts à sacrifier et l’émir et son fils pour mettre en place un « HBJ » dévoué corps et âme à Washington et à Israël. En dépit de l’opulence affichée, l’émirat n’est pas si stable qu’il y paraît. Sur le plan économique, le Qatar est endetté à des taux « européens » et l’exploitation de gaz de schiste est en rude concurrence, à commencer aux États-Unis.

La présence de la plus grande base américaine en dehors des États-Unis sur le sol qatari peut-elle être considérée comme un contrat d’assurance pour la survie du régime ou au contraire comme une épée de Damoclès fatale à plus ou moins brève échéance ?

La présence de l’immense base Al-Udaï est, dans l’immédiat, une assurance vie pour Doha. L’Amérique a ici un lieu idéal pour surveiller, protéger ou attaquer à son gré dans la région. Protéger l’Arabie Saoudite et Israël, attaquer l’Iran. La Mecque a connu ses révoltes, la dernière réprimée par le capitaine Barril et la logistique française. Mais Doha pourrait connaître à son tour une révolte conduite par des fous d’Allah mécontents de la présence du « grand Satan » en terre wahhabite.

Ce régime, moderne d’apparence, est en réalité fondamentalement tribal et obscurantiste. Pourquoi si peu d’informations sur sa vraie nature ?

Au risque de radoter, il faut que le public sache enfin que le Qatar est le champion du monde du double standard : celui du mensonge et de la dissimulation comme philosophie politique. Par exemple, des avions partent de Doha pour bombarder les taliban en Afghanistan alors que ces mêmes guerriers religieux ont un bureau de coordination installé à Doha, à quelques kilomètres de la base d’où décollent les chasseurs partis pour les tuer. Il en va ainsi dans tous les domaines, et c’est le cas de la politique intérieure de ce petit pays.

Regardons ce qui se passe dans ce coin de désert. Les libertés y sont absentes, on y pratique les châtiments corporels, la lettre de cachet, c’est-à-dire l’incarcération sans motif, est une pratique courante. Le vote n’existe que pour nommer une partie des conseillers municipaux, à ceci près que les associations et partis politiques sont interdits, tout comme la presse indépendante… Une Constitution qui a été élaborée par l’émir et son clan n’est même pas appliquée dans tous ses articles. Le million et demi de travailleurs étrangers engagés au Qatar s’échinent sous le régime de ce que des associations des droits de l’homme qualifient « d’esclavage ». Ces malheureux, privés de leurs passeports et payés une misère, survivent dans les camps détestables sans avoir le droit de quitter le pays. Nombre d’entre eux, accrochés au béton des tours qu’ils construisent, meurent d’accidents cardiaques ou de chutes (plusieurs centaines de victimes par an).

La « justice », à Doha, est directement rendue au palais de l’émir, par l’intermédiaire de juges qui le plus souvent sont des magistrats mercenaires venus du Soudan. Ce sont eux qui ont condamné le poète Al-Ajami à la prison à perpétuité parce qu’il a publié sur Internet une plaisanterie sur Al-Thani ! Observons une indignation à deux vitesses : parce que cet homme de plume n’est pas Soljenitsyne, personne n’a songé à défiler dans Paris pour défendre ce martyr de la liberté. Une anecdote : cette année, parce que son enseignement n’était pas « islamique », un lycée français de Doha a tout simplement été retiré de la liste des institutions gérées par Paris.

Arrêtons là car la situation du droit au Qatar est un attentat permanent aux libertés.

Pourtant, et l’on retombe sur le fameux paradoxe, Doha n’hésite pas, hors de son territoire, à prêcher la démocratie. Mieux, chaque année un forum se tient sur ce thème dans la capitale. Son titre, « New or restaured democracy » alors qu’au Qatar il n’existe de démocratie ni « new » ni « restaured »… Selon le classement de The Economist, justement en matière de démocratie, le Qatar est 136e sur 157e États, classé derrière le Bélarusse. Bizarrement, alors que toutes les bonnes âmes fuient le dictateur moustachu Loukachenko, personne n’éprouve honte ou colère à serrer la main d’Al-Thani. Et le Qatar, qui est aussi un enfer, n’empêche pas de grands défenseurs des droits de l’homme, notamment français, de venir bronzer, invités par Doha, de Ségolène Royal à Najat Vallaud-Belkacem, de Dominique de Villepin à Bertrand Delanoë.

Comment un pays qui est par essence antidémocratique se présente-t-il comme le promoteur des printemps arabes et de la liberté d’expression ?

Au regard des « printemps arabes », où le Qatar joue un rôle essentiel, il faut observer deux phases. Dans un premier temps, Doha hurle avec les peuples justement révoltés. On parle alors de « démocratie et de liberté ». Les dictateurs mis à terre, le relais est pris par les Frères musulmans, qui sont les vrais alliés de Doha. Et on oublie les slogans d’hier. Comme on le dit dans les grandes surfaces, « liberté et démocratie » n’étaient que des produits d’appel, rien que de la « com ».

Si l’implication du Qatar dans les « printemps » est apparue comme une surprise, c’est que la stratégie de Doha a été discrète. Depuis des années l’émirat entretient des relations très étroites avec des militants islamistes pourchassés par les potentats arabes, mais aussi avec des groupes de jeunes blogueurs et internautes auxquels il a offert des stages de « révolte par le Net ». La politique de l’émir était un fusil à deux coups. D’abord on a envoyé au « front » la jeunesse avec son Facebook et ses blogueurs, mains nues face aux fusils des policiers et militaires. Ceux-ci défaits, le terrain déblayé, l’heure est venue de mettre en poste ces islamistes tenus bien au chaud en réserve, héros sacralisés, magnifiés en sagas par Al-Jazeera.

Comment expliquez-vous l’implication directe du Qatar d’abord en Tunisie et en Libye, et actuellement en Égypte, dans le Sahel et en Syrie ?

En Libye, nous le montrons dans notre livre, l’objectif était à la fois de restaurer le royaume islamiste d’Idriss tout essayant de prendre le contrôle de 165 milliards, le montant des économies dissimulées par Kadhafi. Dans le cas de la Tunisie et de l’Égypte, il s’agit de l’application d’une stratégie froide du type « redessinons le Moyen-Orient », digne des « néocons » américains. Mais, une fois encore, ce n’est pas le seul Qatar qui a fait tomber Ben Ali et Moubarak ; leur chute a d’abord été le résultat de leur corruption et de leur politique tyrannique et aveugle.

Au Sahel, les missionnaires qataris sont en place depuis cinq ans. Réseaux de mosquées, application habile de la zaqat, la charité selon l’islam, le Qatar s’est taillé, du Niger au Sénégal, un territoire d’obligés suspendus aux mamelles dorées de Doha. Plus que cela, dans ce Niger comme dans d’autres pays pauvres de la planète le Qatar a acheté des centaines de milliers d’hectares transformant ainsi des malheureux affamés en « paysans sans terre ». À la fin de 2012, quand les djihadistes ont pris le contrôle du Nord-Mali, on a noté que des membres du Croissant-Rouge qatari sont alors venus à Gao prêter une main charitable aux terribles assassins du Mujao…

La Syrie n’est qu’une extension du domaine de la lutte avec, en plus, une surenchère : se montrer à la hauteur de la concurrence de l’ennemi saoudien dans son aide au djihad. Ici, on a du mal à lire clairement le dessein politique des deux meilleurs amis du Qatar, les États-Unis et Israël, puisque Doha semble jouer avec le feu de l’islamisme radical…

Le Fatah accuse le Qatar de semer la zizanie et la division entre les Palestiniens en soutenant à fond le Hamas, qui appartient à la nébuleuse des Frères musulmans. Pour beaucoup d’observateurs, cette stratégie ne profite qu’à Israël. Partagez-vous cette analyse ?

Quand on veut évoquer la politique du Qatar face aux Palestiniens, il faut s’en tenir à des images. Tzipi Livni, qui fut avec Ehud Barak la cheville ouvrière, en 2009, de l’opération Plomb durci sur Gaza – 1 500 morts – fait régulièrement ses courses dans les malls de Doha. Elle profite du voyage pour dire un petit bonjour à l’émir. Un souverain qui, lors d’une visite discrète, s’est rendu à Jérusalem pour y visiter la dame Livni… Souvenons-nous du pacte signé d’un côté par HBJ et le souverain Al-Thani et de l’autre les États-Unis : la priorité est d’assister la politique d’Israël. Quand le « roi » de Doha débarque à Gaza en promettant des millions, c’est un moyen d’enferrer le Hamas dans le clan des Frères musulmans pour mieux casser l’unité palestinienne. C’est une politique pitoyable. Désormais, Mechaal, réélu patron du Hamas, vit à Doha dans le creux de la main de l’émir. Le rêve de ce dernier – le Hamas ayant abandonné toute idée de lutte – est de placer Mechaal à la tête d’une Palestine qui se situerait en Jordanie, le roi Abdallah étant déboulonné. Israël pourrait alors s’étendre en Cisjordanie. Intéressante politique-fiction.

Le Qatar a-t-il « acheté » l’organisation de la Coupe du monde football en 2022 ?

Un grand et très vieil ami du Qatar m’a dit : « Le drame avec eux, c’est qu’ils s’arrangent toujours pour que l’on dise “cette fois encore, ils ont payé !” » Bien sûr, il y a des soupçons. Remarquons que les fédérations sportives sont si sensibles à la corruption que, avec de l’argent, acheter une compétition est possible. On a connu cela avec des jeux Olympiques étrangement attribués à des outsiders…

Dans le conflit frontalier entre le Qatar et le Bahreïn, vous révélez que l’un des juges de la Cour internationale de justice de La Haye aurait été acheté par le Qatar. L’affaire peut-elle être rejugée à la lumière de ces révélations ?

Un livre – sérieux celui-là – récemment publié sur le Qatar évoque une manipulation possible lors du jugement arbitral qui a tranché le conflit frontalier entre le Qatar et Bahreïn. Les enjeux sont énormes puisque, sous la mer et les îlots, se trouve du gaz. Un expert m’a déclaré que cette révélation pouvait être utilisée pour rouvrir le dossier devant la Cour de La Haye…

Les liaisons dangereuses et troubles entre la France de Sarkozy et le Qatar se poursuivent avec la France de Hollande. Comment expliquez-vous cette continuité ?

Parler du Qatar, c’est parler de Sarkozy, et inversement. De 2007 à 2012, les diplomates et espions français en sont témoins, c’est l’émir qui a réglé la « politique arabe » de la France. Il est amusant de savoir aujourd’hui que Bachar al-Assad a été l’homme qui a introduit la « sarkozie » auprès de celui qui était alors son meilleur ami, l’émir du Qatar. Il n’y a pas de bonne comédie sans traîtres. Kadhafi était, lui aussi, un grand ami d’Al-Thani et c’est l’émir qui a facilité l’amusant séjour du colonel et de sa tente à Paris. Sans évoquer les affaires incidentes, comme l’épopée de la libération des infirmières bulgares. La relation entre le Qatar et Sarkozy a toujours été sous-tendue par des perspectives financières. Aujourd’hui Doha promet d’investir 500 millions de dollars dans le fonds d’investissement que doit lancer l’ancien président français à Londres. Échange de bons procédés, ce dernier fait de la propagande ou de la médiation dans les aventures, notamment sportives, du Qatar.

François Hollande, par rapport au Qatar, s’est transformé en balancier. Un jour le Qatar est « un partenaire indispensable », qui a sauvé dans son fief de Tulle la fabrique de maroquinerie le Tanneur, le lendemain, il faut prendre garde de ses amis du djihad. Aucune politique n’est fermement dessinée et les diplomates du Quai-d’Orsay, nommés sous Sarkozy, continuent de jouer le jeu d’un Doha qui doit rester l’ami numéro 1. En période de crise, les milliards miroitants d’Al-Thani impliquent aussi une forme d’amitié au nom d’un slogan faux et ridicule qui veut que le Qatar « peut sauver l’économie française »… La réalité est plus plate : tous les investissements industriels de Doha en France sont des échecs… Reste le placement dans la pierre, vieux bas de laine de toutes les richesses. Notons là encore un pathétique grand écart : François Hollande a envoyé son ministre de la Défense faire la quête à Doha afin de compenser le coût de l’opération militaire française au Mali, conduite contre des djihadistes très bien vus par l’émir.

Majed Nehmé

http://www.afrique-asie.fr/menu/actualite/70-points-chauds/5510-le-qat...

* Le Vilain Petit Qatar – Cet ami qui nous veut du mal, Jacques-Marie Bourget et Nicolas Beau, Éd. Fayard, 300 p., 19 euros

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jeudi, 09 mai 2013

Jean Aziz et le face à face Iran – Arabie Saoudite au Liban et en Syrie

Jean Aziz et le face à face Iran – Arabie Saoudite au Liban et en Syrie

La thèse que je défends sur ce blog est que la crise syrienne a dès le départ donné lieu à une immixtion de forces étrangères à ce pays ; des forces qui ont engagé très tôt une action violente, parfois très professionnelle, contre l’appareil policier et militaire du régime.

Ces forces étrangères, non contentes d’armer militairement et d’outiller dans la guerre médiatique des citoyens syriens, qu’ils appartiennent à la mouvance des Frères Musulmans, du wahabbisme ou tout simplement à celle de ceux qui pensent que leur avenir personnel ou celui de leur clan pourrait être plus radieux sans Bachar al-Assad, ont fait venir des mercenaires de Turquie, de Jordanie, et même de Tunisie, de Tchétchénie et d’Europe (je ne parle pas là de Syriens résidant en Europe).

Il va sans dire que ceux qui espéraient une démocratisation de la vie politique en Syrie en sont pour leurs frais.

Jean Aziz, qu’on a déjà croisé sur ce blog, grossit peut-être un peu le trait, mais oui, nous assistons en Syrie à une guerre entre l’Iran et le Hezbollah d’une part, et l’Arabie Saoudite, le Qatar, la Turquie et les Etats Unis d’autre part.

Et c’est l’axe turco-arabo-occidental qui a pris l’initiative de cette guerre et a fait en sorte qu’elle perdure faute de possibilité de règlement politique qu’il s’est ingénié à empêcher, exactement comme en Libye.

Sauf que l’enjeu stratégique est nettement plus important en Syrie qu’en Libye et que si les Américains jouent là avec la sécurité de leur entité sioniste adorée, les monarques jouent peut-être leurs têtes !

Pourtant, dans un monde rationnel, cette crise aurait été réglée depuis longtemps ou n’aurait jamais eu lieu.

Mais un monde rationnel serait un monde où les Etats Unis au lieu de chercher la confrontation avec l’Iran, le Hezbollah et la Syrie, chercheraient à avoir des relations normales avec ces pays avec lesquels ils ne devraient avoir à priori pas de conflit aigu.

Oui, j’écris ces pays car je ne compte pas le Hezbollah qui n’existerait pas si les Etats Unis ne s’entêtaient pas à soutenir inconditionnellement une entité sioniste qui ne pourra jamais avoir un statut normal dans la région.

Même si, pour les pétromonarchies d’Arabie et du Qatar, tout l’enjeu d’une défaite de l’axe Syrie – Hezbollah – Iran est la possibilité de pouvoir enfin normaliser leurs relations avec l’entité sioniste et donc d’enterrer définitivement les droits du peuple palestinien.

L’objectif est illusoire certes et les monarques comme le Grand Turc devraient méditer ce propos de Kant :

Est illusion le leurre qui subsiste même quand on sait que l’objet supposé n’existe pas.

L'Iran contre la diplomatie saoudienne au Liban

par Jean Aziz,  

Al-Monitor Lebanon Pulse, 29 avril 2013 traduit de l’anglais par Djazaïri

Trois semaines de développements de la situation au Liban ont suffi pour effacer le sentiment qu’une percée dans les relations entre l’Arabie Saoudite et l’Iran était proche, du moins au Liban. Ce sentiment avait pris corps le 6 avril quand le parlement libanais a désigné, dans un consensus presque total, le député de Beyrouth Tammam Salam pour former le nouveau cabinet.

Au début, il y avait certains signes qu’une percée dans la relation entre l’Arabie Saoudite et l’Iran était en vue. L’ambassadeur Saoudien à Beyrouth, Ali Awad Asiri, avait clairement fait une ouverture en direction du Hezbollah. A un point tel que certains avaient dit que l’Arabie Saoudite avait entamé des contacts directs avec la plus puissante organisation chiite du Liban par l’intermédiaire d’un officiel des services de sécurité libanais qui jouit de la confiance du secrétaire général du Hezbollah Hassan Nasrallah en personne. On a même dit que l’adjoint de Nasrallah, le Cheikh Naim Qassem devait se rendre en Arabie Saoudite à la tête d’une mission du Hezbollah avec la mission de discuter des relations entre la banlieue sud de Beyrouth et Riyad. La délégation devait aussi aborder le problème de la formation d’un nouveau gouvernement [au Liban] et l’acceptation d’une nouvelle loi pour les élections législatives pour faire en sorte que les élections interviennent avant la fin du mandat de l’assemblée actuelle le 20 juin et éviter ainsi au Liban d’aller vers l’inconnu.

Cette impression optimiste a vite disparu et il est devenu évident que la stratégie de la tension entre les axes saoudien et iranien reste d’actualité  jusqu’à nouvel ordre.

Il semble que les deux parties pratiquent un jeu de dupe pour améliorer leurs positions et leurs capacités en préparation d’une attaque surprise contre l’autre camp.

Sous couvert d’ouverture en direction du Hezbollah à Beyrouth, l’axe saoudien a l’œil rivé sur une bataille régionale pour renforcer le siège du régime syrien et renverser le président Bachar al-Assad. Au moment où les Saoudiens se préparaient à attaquer la capitale syrienne, ils avaient jugé prudent de ne pas ouvrir plus d’un front à la fois. Ils ont donc fait une trêve avec le Hezbollah et montré de la bonne volonté à l’égard de ce dernier, tandis que le nœud coulant arabo-turco-occidental se resserrait autour du cou d’Assad.

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Jean Aziz prend la pose entre Michel Aoun (à droite sur la photo) et Hassan Nasrallah

De leur côté, l’Iran et le Hezbollah ne se sont pas laissés berner par la manoeuvre saoudienne. Quelques jours après avoir commencé à tester les réactions de l’autre camp, l’Arabie Saoudite a commencé son attaque : les alliés libanais de Riyad ont durci leurs positions en formant un nouveau gouvernement et en définissant une loi électorale, ce qui a fait prendre conscience à l’axe du Hezbollah [le Hezbollah et ses alliés au Liban] de la manœuvre, ce qui a amené cet axe à changer de tactique. Le Hezbollah a alors contre attaqué sur presque tous les fronts.

Il semble que l’Arabie Saoudite avait misé sur une évolution favorable de la situation militaire en Syrie quand  cette évolution a en fait été favorable au camp iranien. Un facteur sur le terrain a inversé la donne : en deux semaines, les forces pro-régime ont avancé dans toutes les régions autour de Damas et de Homs. Ce développement a placé les 370 kilomètres de frontière syro-libanaise sous le contrôle du régime syrien et de ses alliés au Liban. Ce qui a piégé et isolé une partie significative des Sunnites – qui sont traditionnellement soutenus par l’Arabie Saoudite et sont près d’un demi-million à Akkar et à Tripoli – par l’interposition de l’armée syrienne et de ses alliés libanais.

Mais la riposte contre l’Arabie Saoudite au Liban a d’autres manifestations: la visite du Hezbollah à Riyad dont on parlait n’a jamais eu lieu et on a appris que Nasrallah est allé à Téhéran dernièrement. Malgré de nombreuses conjectures sur les objectifs de cette visite et son timing, le Hezbollah a ostensiblement gardé le silence sur ce sujet. Le parti ne l’a ni confirmée, ni infirmée. Cependant, des photos de Nasrallah rencontrant le Guide Suprême Iranien Ali Khamenei ont été publiées sur les réseaux sociaux. Des cercles proches du Hezbollah affirment que la photo était tirée d’archives, mais la photo n’a pourtant pas l’air bien ancienne.

Une autre manifestation de la contre attaque a été l’annonce par Israël de la destruction au dessus de la mer au large d’Haïfa d’un drone venu du Liban. Mais à la différence d’incidents similaires, comme quand Israël avait détruit le drone Ayyoub le 9 octobre 2012, le Hezbollah a promptement démenti avoir un rapport quelconque avec cette affaire. Certains ont interprété ce démenti comme étant causé par l’échec du drone «Ayyoub 2» à pénétrer en profodeur en territoire israélien. Mais le drone avait peut-être simplement comme objectif de survoler les champs gaziers israéliens en Méditerranée. Dans ce cas, le drone a réussi à envoyer le message à Israël, ce qui explique aussi le démenti du Hezbollah.

Ces deux derniers jours, ce cercles proches du parti ont traité cette affaire d’une manière évasive en demandant: Et si toute cette affaire se résumait à un gamin du sud Liban qui jouait avec un avion télécommandé amenant les Israéliens à suspecter le Hezbollah de leur faire la guerre ?

Certains à Beyrouth pensent que la contre attaque iranienne contre les avancées de l’Arabie saoudite, qui se sont traduites par la démission de l’ancien premier ministre Libanais Najib Mikati se déploie bien au-delà de la scène libanaise pour toucher le Bahreïn et même l’Irak. On a parlé de découvertes de caches d’armes pour l’opposition bahreïnie à Manama ; et les troupes du premier ministre Irakien Nouri al-Maliki sont entrée à Hawija et menacent de faire la même chose à Anbar.

Toutes choses qui confirment une fois encore que tout accord entre les Libanais doit se faire sous des auspices internationaux, c’est-à-dire au minimum une entente entre Washington et Téhéran. Mais une telle entente ne pourra sans doute pas intervenir tant que ne se seront pas produits certains événements, que ce soient les élections présidentielles en Iran en juin prochain ou les résultats des discussions d’Almaty sur le nucléaire (si elles reprennent).

Entre temps, la situation libanaise va déboucher soit sur la prolongation de la crise par la prolongation du mandate du parlement et le report de la formation d’un nouveau gouvernement, soit sur l’explosion de la situation!

La plupart des organisations libanaises et des parties étrangères préfèrent la première option.

Jean Aziz est un collaborateur d’ Al-Monitor’s Lebanon Pulse. Il est éditorialiste au journal libanais Al-Akhbar et anime une émission de débat politique sur OTV, une chaîne de télévision libanaise.

Ajoutons que ce chrétien a d’abord appartenu aux Forces Libanaises, un mouvement d’extrême droite avant de rejoindre le général Michel Aoun sur une position nationaliste, modérément antisyrienne (ou modérement prosyrienne), favorable à l’entente interconfessionnelle et hostile à l’entité sioniste. C’est pourquoi on dit qu’il est proche du Hezbollah. Il l’est à peu près à la façon de Michel Aoun.

http://mounadil.wordpress.com/2013/04/30/jean-aziz-et-le-face-a-face-iran-arabie-saoudite-au-liban-et-en-syrie/

jeudi, 02 mai 2013

La démocratie peut-elle être installée par des armées étrangères ?

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Irak, Afghanistan, Libye, Syrie…

La démocratie peut-elle être installée par des armées étrangères ?

Rony Brauman*

Ex: http://metamag.fr/
En Syrie, comme en Libye, ces événements se situent dans le monde arabe et aux abords de la Méditerranée. Ces points communs renforcent le contraste entre le volontarisme de l’intervention étrangère en Libye et la prudence qui peut paraître excessive face à la situation en Syrie. Mais il convient de se placer au-delà d’une démarche purement morale qui récuserait ces différences de traitement, car le propre de la politique internationale consiste à tenir compte de la singularité des circonstances et des événements.
 
Le cas Libyen

En Libye, l’extrême faiblesse diplomatique et militaire du régime a rendu l’intervention possible. Kadhafi, isolé, ne bénéficiait d’aucun appui au Conseil de sécurité de l’ONU, contrairement à la Syrie qui est soutenue par la Russie et la Chine. Le régime libyen était également très faible sur le plan militaire : chaque intervention de son armée au Tchad s’était soldée par une défaite, son aviation était presque inexistante, ses blindés en mauvais état et ses troupes divisées.
 
Par ailleurs, des dirigeants européens voyaient dans l’intervention en Libye l’occasion de créer dans leur pays un sentiment d’union nationale. Mise à part la période d’enlisement constatée par les militaires eux-mêmes, une seule bavure importante de l’Otan a eu lieu, ce qui est très peu dans une guerre de sept mois. Cette guerre, menée avec un savoir-faire technique notable, a rassemblé la quasi-totalité de la classe politique française, des opinions et des éditorialistes. Les conditions favorables étaient donc réunies pour qu’adviennent une victoire militaire et un résultat politiquement acceptable. La défaite de Kadhafi était certaine, mais le doute subsistait quant à ce qui allait suivre son exécution et la défaite du régime. J’en parle d’autant plus librement que j’étais l’un des rares opposants à cette intervention.
 

Rony Brauman et BHL : Guerre juste ou juste une guerre ? 
 
Les conditions dans lesquelles la guerre a été déclenchée restent à éclaircir mais tout laisse à penser que Nicolas Sarkozy et Claude Guéant l’ont très vite voulue. Les manifestations ont commencé le 15 février à Benghazi du fait de l’emprisonnement d’un avocat, militant des droits de l’homme, avant de s’étendre rapidement dans l’est du pays, les premiers affrontements se produisant le 17 février à Benghazi (7 morts). On ignorait tout, en France et en Angleterre, de ceux qui allaient diriger ce soulèvement. Or il n’a fallu que trois semaines entre le premier jour du soulèvement et la reconnaissance du Conseil national de transition (CNT) comme instance légitime, alors que la composition de ce dernier était inconnue, et il n’a fallu qu’une semaine de plus pour l’entrée en guerre. 
 
Le CNT a été d’emblée reconnu par la France dès le 10 mars, sous l’influence avérée de Bernard-Henri Lévy, et décrété seul représentant légitime du peuple libyen. En moins de trois semaines, cette nouvelle instance remplaçait les représentants de l’État libyen au Conseil des droits de l’homme et au Conseil de sécurité de l’ONU, alors que Kadhafi se trouvait encore en place et que la Libye faisait partie du Conseil de sécurité au moment de la guerre. Il n’existe pas, à ma connaissance, de précédent à cette situation et cette procédure inédite est passée inaperçue, comme si elle allait de soi. Il est vrai qu’elle se justifiait par l’accumulation d’allégations alarmantes : usage d’avions contre des manifestants, déploiements de milliers de mercenaires dopés au Viagra, déjà coupables de milliers de morts et de viols, colonnes de chars marchant sur Benghazi pour exterminer les insurgés et leurs complices... S’il est avéré que la répression avait fait dès le début mars plusieurs dizaines de morts et que des chars avaient pénétré dans Benghazi (d’où ils avaient été repoussés par les insurgés), le reste des allégations reste à prouver. Cette précipitation en dit long sur la légèreté dont a fait preuve l’ensemble de la classe politique et de la classe « éditocratique » françaises. 
 
Aujourd’hui, le pays se morcelle, les milices surarmées se multiplient et n’entendent pas abandonner le pouvoir qu’elles ont réussi à prendre, d’autant moins que le CNT ne représente personne, même en Cyrénaïque dont il est issu. J’ajoute que, selon le CNT, le bilan humain de cette guerre se monte à 30 000 morts, chiffre présenté par les nouvelles « autorités » comme un minimum. Si elle a été menée dans le but d’épargner des vies, le résultat est catastrophique et l’on comprend que ces chiffres aient été escamotés par les tenants de l’intervention.
 
« Deux poids deux mesures ? »

Face à la situation syrienne, l’approche des dirigeants occidentaux semble beaucoup plus élaborée ; la situation politique locale est prise en compte, alors même qu’elle a été délibérément ignorée en Libye. Ils ont à l’esprit les distances qui séparent l’opposition extérieure de l’opposition intérieure, ce qui oppose les groupes d’insurgés dans les différentes régions et, à l’intérieur de ces régions, les divisions entre les diverses composantes de l’opposition syrienne. Les diplomaties sont prêtes à travailler avec certaines d’entre elles, d’autres semblent plus menaçantes pour l’unité syrienne et pour l’établissement d’un état de droit. On peut dire que la lucidité, le réalisme comme méthode (et non pas comme principe) ont trouvé toute leur place dans la situation syrienne et si certains parlent de « deux poids, deux mesures » je ne suis pas mécontent que la réaction soit mieux mesurée et réfléchie en Syrie.
 
                                                     L'ambassade de France à Tripoli dévastée par un attentat
 
D’autres situations ont pu faire l’objet de réactions de type « deux poids, deux mesures ». Ainsi, quand l’Irak a envahi le Koweït, une coalition internationale s’est dressée. Mais quand les États-Unis ont envahi l’Irak, malgré une opposition presque unanime, on n’a pas imaginé qu’une coalition internationale pouvait se constituer pour leur faire la guerre. Outre le rapport de force militaire en faveur des États-Unis, personne n’a émis l’idée qu’il serait souhaitable d’arrêter les États-Unis plutôt que de les laisser dégrader une situation déjà très complexe au Proche-Orient. 
De la même manière, personne n’a souhaité engager une action militaire contre Israël envahissant le Liban en 2006 ou « matraquant » Gaza en 2009 ; personne aujourd’hui ne souhaite s’attaquer à Israël, lorsque ce pays envisage sérieusement une attaque sur l’Iran avec des conséquences qui pourraient être catastrophiques selon de nombreux experts stratégiques israéliens eux-mêmes, y compris d’anciens patrons du Mossad ou d’anciens chefs d’État-major.
 
Malgré toutes les critiques que je peux formuler vis-à-vis de la politique israélienne, je ne prônerais certainement pas une attaque militaire contre l’Iran, non pas parce qu’il devrait être de toute éternité exempt de toute mesure de rétorsion, mais parce que je suis convaincu que les résultats seraient pire que le mal que l’on veut traiter. Dans ce genre d’affaires comme en pharmacologie, on n’est jamais certain de trouver d’emblée la solution positive. En médecine comme en politique, un bon traitement est le résultat d’un bon calcul ; personne ne peut savoir d’avance ce qui va se passer. C’est pourquoi je défends l’idée de « deux poids, deux mesures », car c’est bien en fonction des conséquences plus ou moins prévisibles des décisions qu’il faut se déterminer.
 
Ingérence et recours à la guerre : quelle légitimité ?

L’ingérence et le recours à la guerre sont-ils forcément légitimes pour défendre les droits de l’homme ? Lorsqu’on pose comme objectif le rétablissement d’une situation favorable aux droits de l’homme, par l’interposition d’un bouclier qui viendrait protéger des civils contre les menées agressives de forces armées, on est apparemment précis, mais en réalité on est dans le vague le plus complet. 
 
« Protéger les populations », comme on le dit maintenant à la suite de la résolution de 2005 du Conseil de sécurité, c’est ni plus ni moins établir un gouvernement, car c’est précisément à l’instance qui gouverne le territoire qu’il revient de protéger la population. Ou alors l’alternative serait la fragmentation du pays en autant de groupes de populations qu’il existe de menaces et l’on assisterait non seulement à la guerre de tous contre tous mais au morcellement généralisé de tous les pays dans lesquels des violations sérieuses et répétées des droits de l’homme se produisent. S’ingérer pour protéger des populations afin de défendre leurs droits fondamentaux, c’est la recette pour le chaos, c’est l’invitation à entrer dans un grand nombre de conflits, car il y a un grand nombre de pays où les droits de l’homme sont violés. 
 
Faut-il pour autant condamner toute intervention armée, tout usage de la violence, dans le domaine international, autrement que pour assurer la défense de son propre territoire ? Ma position est plus nuancée. La guerre de défense garde toute sa légitimité et nul ne condamnerait un pays pour avoir voulu défendre ses frontières contre une agression extérieure, y compris des pays qui viennent défendre le pays envahi contre l’agresseur extérieur.
 
Reste à déterminer dans quelles conditions des interventions extérieures comme au Sierra Leone, au Kosovo, au Timor, en Côte d’Ivoire, en Afghanistan, en Irak ou en Libye... peuvent être un recours légitime. De saint Augustin et saint Thomas jusqu’à la résolution du Conseil de sécurité de septembre 2005 instituant la « responsabilité de protéger », les cinq critères de la guerre dite juste sont restés remarquablement stables : ce sont l’autorité légitime, la cause légitime, la proportionnalité des moyens, l’usage de la guerre comme dernier recours et enfin des chances raisonnables de succès. Le contenu de ces critères se comprend différemment selon les époques (pour saint Thomas, l’autorité légitime était l’Eglise et la cause légitime la défense des chrétiens) mais, si évolutifs qu’ils soient, ils conservent un sens immédiatement intelligible et figurent à peu près sous cette forme dans le document des Nations Unies (l’autorité légitime étant aujourd’hui le Conseil de sécurité et la cause légitime la défense de la paix et la prévention de crimes contre l’humanité). Je laisserai de côté les trois premiers, d’ordre juridique, pour mettre en exergue les deux derniers que je qualifie d’éthico-politiques.
 
On peut analyser les « chances raisonnables de succès » au vu de la série assez longue d’interventions qui se sont produites depuis la chute du mur de Berlin, de la première guerre d’Irak jusqu’à la guerre en Libye. Certaines de ces interventions peuvent être considérées comme des « succès raisonnables », même si le terme « succès » peut sembler déplacé, car ces guerres provoquent toujours des destructions et des souffrances, des déplacements de population aux effets durables. Des succès raisonnables ont été remportés, lors de la première guerre d’Irak, lorsque le mandat était extrêmement clair : il s’agissait de faire sortir du territoire koweitien les troupes irakiennes qui s’y trouvaient. L’objectif était facile à cerner et le résultat simple à constater, dès que les troupes irakiennes furent rentrées chez elles. Un mandat limité, précis, observable sur le terrain est donc une condition. 
 
En Sierra Leone, il s’agissait de défendre le régime en place contre une offensive de la guérilla du RUF . Ce régime mis en place par les Nations Unies, renforcé par une élection et défendu par la communauté internationale, était mis en danger par une guérilla très violente venue menacer la capitale et dont les exactions étaient connues de tous. Les forces spéciales britanniques sont intervenues et, en un mois, ont battu la guérilla après une intervention très meurtrière, considérée comme réussie parce que la menace contre le gouvernement légal a été levée. Au terme de cette victoire, les SAS britanniques sont rentrées chez eux et le conflit était terminé. Ce n’était pas une guerre des droits de l’homme. Si on s’était intéressé au bilan des droits de l’homme, on aurait constaté qu’un certain nombre des composantes qui formaient le gouvernement sierra-léonais de l’époque s’était rendu coupable d’exactions comparables à celles du RUF. Pour les instances internationales, il s’agissait d’abord de la protection du gouvernement et de la stabilité du pays.
De la même façon en Côte d’Ivoire, l’installation d’Alassane Ouattara dans le palais présidentiel et l’éviction de Laurent Gbagbo pouvaient parfaitement être défendues. L’objectif était clair. Il s’agissait de destituer Gbagbo qui se cramponnait au pouvoir après des élections qui venaient de donner la victoire à son concurrent, selon les observateurs chargés de la régularité du vote. Il est avéré qu’Alassane Ouattara s’est rendu coupable d’exactions, au même titre que Gbagbo peut-être, même s’il demeure difficile de déterminer avec précision les auteurs de ces massacres dans ce genre de situation. Les violations des droits de l’homme se partagent entre les deux camps. Ce n’est pas sur ce point que l’intervention militaire a été menée, mais sur l’objectif précis de la mise en place du nouveau gouvernement reconnu par les Nations Unies et élu par le peuple ivoirien.
 
On pourrait continuer sur le Kosovo. Les alliés ont misé sur l’UCK, l’Armée de libération du Kosovo, qui était connue, et pas nécessairement de façon honorable. Cependant, le territoire était limité et se prêtait à un contrôle militaire réel. Le Kosovo est aujourd’hui une garnison de l’Otan. Jusqu’à peu, des soldats américains gardaient encore ses frontières et le pays vit sous perfusion européenne ; il ne vit pas très bien, mais un certain calme règne. Ce n’est pas sur la question des droits de l’homme que l’on s’est déterminé. Je précise que j’étais pour ma part engagé du côté bosniaque et que j’ai pris parti pour le cosmopolitisme de la Bosnie multiethnique, mais je rappelle au passage une vérité factuelle bien peu connue. Les termes de « purification ethnique » – qui ont pris force de formulation juridique aujourd’hui –, apparaissent dans un mémorandum de l’Académie des sciences de Belgrade en 1986-1987 pour désigner une situation que les nationalistes serbes redoutaient au Kosovo. C’était un vieil enjeu pour eux et ils soutenaient que les Serbes du Kosovo étaient menacés d’être « ethniquement purifiés » par les Albanais yougoslaves du Kosovo, le berceau historique de la Serbie. De fil en aiguille, sur un mode militant très émotionnel et fusionnel, on a fait un renversement de programme dans un renversement de termes, et l’on a prêté aux nationalistes serbes le projet de la purification ethnique comme programme central. Le paradoxe ultime de cette situation, c’est que la prophétie des nationalistes serbes du Kosovo s’est réalisée avec l’aide de ceux qui entendaient défendre le pluralisme, le cosmopolitisme et le multi-ethnisme. 
 
Reste que c’est bien avec des objectifs politiques que l’intervention a été conduite au Kosovo, celui d’empêcher que l’on ne redessine des frontières en fonction de la race et par la force sur le territoire européen. C’est la leçon des guerres en Yougoslavie et c’est la raison pour laquelle – tout en étant non interventionniste en général –, je considère que les interventions armées en Bosnie puis au Kosovo ont eu des justifications sérieuses et que leurs résultats qui ne sont pas enthousiasmants, mais pas désastreux non plus. Cependant, dès lors que l’on déplace la question du mode de la responsabilité politique vers celui des droits de l’homme, on est dans l’hubris, dans la démesure, dans le no limit. On n’en finit pas de filer des paradoxes troublants dès lors qu’on installe le débat comme l’ont fait Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy ou André Glucksmann, tous ces interventionnistes prêts à toutes les guerres pour les droits de l’homme. Pour terminer, un mot sur le critère du « dernier recours », pour rappeler que c’est au contraire une guerre de recours immédiat qui a été conduite en Libye, toute offre de médiation – il y en a eu plusieurs – ayant été systématiquement écartée.
 
Ma réponse à la question qui est posée initialement est donc négative : la force permet de renverser un régime, dictatorial ou non, mais elle allume des incendies qu’elle est impuissante à éteindre et elle ne permet certainement pas d’installer la démocratie.
 
*Rony Brauman, ancien président de Médecins sans frontières, professeur associé à Sciences Po, auteur notamment de "Penser dans l’urgence. Parcours critique d’un humanitaire" (Seuil) et de "Humanitaire, diplomatie et droits de l’homme" (éditions du Cygne).
 
Article paru dans : politique-autrement.org
Les illustrations sont de la rédaction

mardi, 30 avril 2013

www.mwsyria.com

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PERSBERICHT:

Jihadstrijders. Wie zijn ze eigenlijk?

Mediawerkgroep Syrië

27 april 2013

De laatste tijd is er veel te doen over de jongeren die ten strijde trekken naar Syrië. Wie zijn deze jongeren? Wat zijn hun drijfveren? Hoe gaan we hiermee om? Hoe moeten we dit interpreteren? Allemaal vragen die in onze media maar wazig beantwoord worden.

In Syrië is er volgens de massamedia een volksopstand bezig, een uitloper van de zogenaamde Arabische Lente die overgeslagen is van Tunesië, Egypte,… Puur ideologisch gezien zou men kunnen besluiten dat deze jongeren willen meestrijden in een vrijheidsstrijd van de Syriërs. Misschien denken sommigen dit ook wel.

Als men echter weet dat de huidige opstand in Syrië geleid wordt door moslimextremisten, o.a. al-Qaida, dan moeten we toch wel even gaan nadenken. Komen deze mensen wel op voor de vrijheid en de democratie, die de Syriërs zo graag willen? Als men weet tot welke gruweldaden deze strijders in staat zijn, kan men niet anders dan besluiten dat dit geen vrijheidsstrijd is zoals wij dit zien in het Westen, maar eerder een strijd om van het seculiere Syrië een extreme islamstaat te maken met de sharia als geldende wetgevende macht en dus ook zonder scheiding van staat en geloof.

Nog verder doordenkend op wat er nu werkelijk aan de gang is in Syrië, komt men tot de conclusie dat het Westen met de Verenigde Staten (VS) hierbij op kop ook wel eigen ‘belangen’ heeft om in Syrië van de oppositie de winnende partij te maken. De geschiedenis leert ons echter dat landen zich eigenlijk weinig aantrekken van mensenrechten of democratie. Dit zijn maar zaken die ons eerder als burger bezighouden. Landen kijken alleen naar ‘belangen’. In het geval van Syrië is dit de aanleg van pijpleidingen voor gas en olie vanuit de Golfstaten, Qatar en Saudi-Arabië. Het zijn ook net deze staten die kwistig zijn met de aanvoer van tonnen oorlogswapens naar Syrië. Nota bene: ook wapens vanuit Kroatië in Europa vinden naarstig afzet in Syrië. Een wapenboycot is alleen van kracht voor de Syrische overheid en rebellen mogen van het Westen de nationale bronnen stelen voor de aankoop van oorlogswapens. Ook werden in Homs grote gasvoorraden gevonden en Homs wil nu net de stad zijn waar de opstanden zeer hevig gewoed hebben. Een eenvoudig mens kan zich hierbij makkelijk voorstellen dat de Amerikaanse en Europese olie-multinationals zeer graag daar een fabriek zouden neerplanten. Heel dit verhaal gaat nog verder en gaat eigenlijk buiten het bestek van dit artikel, maar toont wel aan hoe decadent de strijd in Syrië wel geworden is. Want wie vecht nu voor wat? Sommige van onze politici zoals een Verhofstadt, een Reynders,… sturen openlijk aan om de rebellen – sommige noemen deze nog steeds zo – rechtstreeks te gaan bewapenen. Niet om er een islamitisch land van te maken, maar wel voor ‘democratie’ en ‘vrijheid’,…. pardon.. voor economische belangen dus. Maar waren het ook geen extremisten? Tiens, hoe moet dit dan gebeuren?

Nu we weten dat burgemeester Somers inziet dat hij weleens problemen zou kunnen krijgen met de jonge jihad-strijders die binnenkort – als ze de strijd overleefd hebben – gaan terugkeren, kunnen we ons wel gaan afvragen hoe hij eigenlijk met zijn partijgenoot Verhofstadt overleg gaat plegen? Ze steunen de rebellen, maar ze willen ze niet terug in België. Waarop hopen ze dan?

Sommige media vinden het allemaal zo erg nog niet. Zij vinden het niet het grootste maatschappelijk probleem op dit moment. Ze vinden het zelfs gevaarlijk om mannen met baarden te gaan uitsluiten. Het draait echter niet om de baard natuurlijk en helemaal niet om de islam, die in wezen een vredelievende religie is. Maar het betreft wel het gedachtegoed dat de meeste moslimstrijders hebben. Het is ook verkeerd om deze strijders te vergelijken met de studenten van mei ’68 of met de jongeren van Occupy Wall Street. Deze jonge jihadstrijders vormen wel degelijk een probleem waar ze ook zijn. Europa moet stoppen met zijn hypocrisie over terrorisme. Terrorisme hier is als terrorisme in Syrië.

Onterecht worden moslims met de vinger gewezen, daar het echter niet gaat om een probleem van moslims of soennieten, maar wel om de aanwezigheid sinds maart 2011 van terroristen die de islam misbruiken om door chaos en instabiliteit een machtswissel te bekomen in Syrië. De meerderheid van moslims en soennieten steunen net als andere burgers de Syrische regering en het Syrische nationale leger in de strijd tegen terreur.

De gewone Syriër is het slachtoffer en verdient beter dan dit én de burgers van Europa verdienen de waarheid, zodat er terdege gereageerd kan worden tegen terrorisme met een breed maatschappelijk draagvlak.

Mediawerkgroep Syrië.

Reacties: info@mwsyria.com

Contact: +31 649 154 241+32  483 637 446.

De Mediawerkgroep Syrië bestaat uit vrijwilligers uit Vlaanderen en Nederland; zowel Syriërs als niet-Syriërs die tekortkomingen in de media aankaarten. We komen op voor het zelfbeschikkingsrecht van het Syrische volk en het respecteren van de Syrische soevereiniteit volgens het internationaal recht. Wij kanten ons tegen elke buitenlandse inmenging in de interne zaken van Syrië en steunen het democratische en politieke hervormingsproces van de Syrische regering. Wij wensen het behoud van Syrië als een multiculturele seculiere samenleving volgens de wil van het Syrische volk en veroordelen elke vorm van geweld en terrorisme.


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Infoavond

met Fernand Keuleneer

in Leuven

Vrijdag 31 mei 2013 om 20 uur

Infoavond

Thema nog te bepalen

Met als gastspreker:

Fernand KEULENEER

Advocaat aan de balie te Brussel

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201008191849-1_parket-misleidt-bevolking-over-operatie-kelk.

Plaats: Stellazaal Café Tempo – Baron August de Becker Remyplein 52 – 3010 Kessel-Lo.
Aan de achterkant van het station van Leuven.

Vrije toegang mits twee consumpties per persoon.

Organisatie: Mediawerkgroep Syrië – Email: info@MWSyria.com – Blog: http://MWSyria.com – Facebook: http://www.facebook.com/MWSyria – Twitter: @MWSyria


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HET SYRISCHE VOLK HEEFT UW HULP NODIG.

STEUN HET PROJECT VAN VADER DANIEL.

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MEDIAWERKGROEP SYRIE – 26 april 2013 – Daniël Maes (74), norbertijn van Postel en afkomstig uit Arendonk, is verantwoordelijk voor een seminarie in het uit de zesde eeuw daterend klooster Mar Yacub in Qâra ( VIDEO ), gelegen op 90 kilometer van de Syrische hoofdstad Damascus. Het klooster werd door zusters eigenhandig opgebouwd uit de ruïne van het oudste en wellicht beroemdste klooster van het Midden-Oosten. In Syrië zijn er 2,4 miljoen christenen op 24 miljoen inwoners. Een verre droom van de Vlaamse norbertijn Maes is om van het klooster Mar Yacub een tweede Taizé te maken, dicht bij de bronnen van het christendom, in dialoog met joden en moslims.

De droom van pater Maes sloeg echter aan diggelen toen in maart 2011 criminele bendes en terroristen het land waar hij leefde onderdompelden in chaos en bloedvergieten. Tot voor de verwoestingen was er nagenoeg voor iedereen een zekere welvaart. Nu zijn velen dakloos. In eigen streek tracht de kloostergemeenschap de mensen zoveel mogelijk te helpen, o.a. langs de pastoor van Qâra, die van Qussair is.

Het klooster van Mar Yacub vangt tientallen vluchtelingen op uit Qâra en Homs. Het gaat zowel om christenen als moslims.

Containers met noodhulp

Deze zomer besloot pater Daniël Maes een container te vullen om aan de eerste noden in Syrië tegemoet te komen. Dankzij vele vrijwilligers uit heel België, zowel christenen als moslims, lukte het om op een zeer korte tijd deze klus te klaren en de container te versturen. Er was voedsel in de container voor ruim 400 mensen om gedurende ruim twee weken te eten. Deze vracht werd ter plaatse verdeeld in Tartous.

Normaal zou de container naar het klooster gaan, maar omwille van veiligheidsproblemen is dit onmogelijk.

Even later zijn er nog verschillende containers verscheept met voedsel voor 1.500 à 2.000 mensen aan boord, die in Lattakia noden konden ledigen. De planning is om dit nog uit te breiden en zodoende hulp te bieden aan nog meer mensen: zowel christenen als moslims, zonder onderscheid.

Momenteel is het zeer onrustig in Qâra in Homs en daarom moet gewacht worden om hier de verdeling uit te voeren. Alles zal in gereedheid gebracht worden wanneer het tij zou keren. Het is echt een voorbeeld voor ons land hier te zien hoe christenen en moslims samen aan het werk gaan voor hetzelfde doel.

Steun Syrische vluchtelingen in Qâra!

Aangezien de nood in Syrië momenteel erg hoog is, kan men zijn solidariteit tonen met het Syrische volk door een bijdrage te storten voor de vluchtelingen in Deir Mar Yacub via het rekeningnummer van priester Daniël Maes met vermelding ‘Noodhulp Syrië container’. Met die bijdragen starten de vrijwilligers uit de Kempen dan een nieuwe verscheping naar Syrië.

Met deze financiële giften hoopt men ditmaal ruim vijftien ton rijst naar Syrië te sturen. En de rest wordt opgevuld met kleding, bezorgd door de missiezusters uit Vorselaar met medewerking van Wereldmissiehulp. Deze kledingcontainers staan aan alle kerken: het zijn de RODE! Dus als jullie hierin kleding deponeren komt deze bij ons terecht! Dank bij voorbaat.

Priester Daniël Maes

Abdijlaan 16

2400 MOL-POSTEL

068-2083244-02

IBAN: BE32 0682 0832 4402

BIC: GKCC BE BB

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Daniël Maes (74), norbertijn van Postel en afkomstig uit Arendonk, is verantwoordelijk voor een seminarie in het zesde eeuwse klooster Mar Yakub in Qâra, gelegen op 90 kilometer van de Syrische hoofdstad Damascus. In Syrië zijn er 2,4 miljoen christenen op 24 miljoen inwoners. Een verre droom van de Vlaamse norbertijn Maes is om van het klooster Mar Yakub een tweede Taizé te maken, dicht bij de bronnen van het christendom, in dialoog met joden en moslims.

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Wenst u driemaandelijks het nieuws van priester Daniël via het tijdschrift Hoor te ontvangen?

Stuur dan uw adresgegevens naar P. Smeyers, Driesstraat 7, B-2470 Retie, België.

paula.smeyers@scarlet.be

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Wil zo goed zijn om jaarlijks een bijdrage te storten voor het tijdschrift (richtprijs 10 euro). Gelieve giften voor het klooster Mar Yacub, voor de vluchtelingen en noodlijdenden in Syrië uitdrukkelijk te vermelden bij een storting via de bovenvermelde bankgegevens van het vluchtelingenproject van priester Daniël Maes.

Priester Daniël Maes: de morele ontwrichting

Priester Daniël Maes: bij mijn gemeenschap in deze moeilijke tijden


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lundi, 29 avril 2013

Algerije: Geschiedenis, Geopolitiek en Actuele Destabilisering

Robert Steuckers voor Mediagroep Syrië

Algerije: Geschiedenis, Geopolitiek en Actuele Destabilisering

 

Samenvatting infoavond Algerije met Robert Steuckers – 24 april 2013

 

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In 2009 werd Bouteflika bij presidentsverkiezingen met ruim 90% wederom herkozen als president van Algerije. Na zijn overwinning beloofde hij de komende vijf jaar 150 miljard dollar (112,8 miljard euro) te investeren in de economie en drie miljoen nieuwe banen te creëren. Algerije kampt met een hoge werkloosheid, woningnood en corruptie.

 

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  • Algerije: oeroude geschiedenis.
  • Deel van het Romeinse Rijk.
  • Reservoir aan tarwe, olijven.
  • Berbers wonen in bergen langs de kust = stammen. Bondgenoten van Rome tegen Carthago.
  • Jugurtha: Numidische koning verloor een oorlog tegen Rome na een bloedige opstand.

 

  • Marokkaanse legioenen – Karavlakken
  • Christelijke gewelddadige sekte = Donatisten/Circoncelliones. Sterke invloed in de Noord-Afrikaanse kerk en ten slotte zelfdestructief toen de islam in de 7e eeuw Noord-Afrika veroverde.
  • Rijk land voor een bepaald aantal mensen.
  • Recrutering Eerste en Tweede Wereldoorlog door de Fransen = geld voor familie.

 

  • Oppervlakkige islamisering: verovering van Spanje vanaf 711.
  • Enkele stammen werden verjoodst: La Kahina
  • Verschillende dynastieën (Berbers) en opstanden (onstabiel).
  • Leger van Arabië: Beni Hilal (1048).
  • Oppervlakkige Germanisering door Vandalen: zeemacht.

 

  • Nesten van piraten (Rabat, Algiers) gedurende eeuwen in Noord-Afrika = nieuwe rijkdom door plunderingen. Mensen uit Europa worden slaven.
  • Toledo: drie eeuwen islamitisch (Moorse tijd: 712-1085).
  • Bezetting door Spanje van delen van Marokko tegen piraterij.
  • 16e eeuw: Algerije wordt een Turkse provincie.
  • Verovering van Algerije: 1830-1871 door Fransen die zorgden voor een moderne administratie.

 

  • Sahara: verovering in 1903.
  • 1947: opstand van Abdel Khader: vanuit het westen en de bergen tegen Frankrijk.
  • Bevolking vergast door Frankrijk: rook in de grotten in het noorden van Algerije.
  • Een miljoen Fransen en vele Europeanen bevolken Algerije en Noord-Afrika.
  • Oran bevolkt door Spanjaarden.

 

  • Geen kolonie voor Leopold I.
  • Ophitsen van Arabieren tegen Berbers door de Fransen.
  • Steden langs de kust ontwikkelen zich: arme bevolking.
  • Frans nationaliteit aan Algerijnse joden, vroegere ‘dhimmi’.
  • Krimoorlog.

 

  • Anti-semitische rellen in Algerije zoals in Rusland. Linkse krachten lokten deze uit.
  • Turken hitsen Salafisten/Senoessisten op tegen Italianen in Libië (Ataturk – 1914). Senoessisten bewapend door de Turken en de Duitsers; bondgenoten van Toeareg-stammen.
  • Spaanse griep na W.O.I.: 100.000den doden.
  • Economische bloei: wijngaarden, citrusvruchten, industriële gewassen.
  • Modern Algerijns nationalisme: Messali Hadj (familie van Ottomaanse origine) zat een tijdje in de gevangenis. Bouwde een ondergrondse beweging voor onafhankelijkheid.

 

  • Programma = lekenstaat naar het voorbeeld van Atatürk.
  • Mobilisatie van stammen voor het Franse leger.
  • Algerijnse oorlog was tegen Fransen en tussen Algerijnen. De orde werd gehandhaafd door Algerijnse troepen: ‘messalisten’ <> ‘frontisten’: 10.000 doden.
  • Abassi Madani: bommen in Radio Algiers (FLN).
  • 1989: steunt FIS (fundamentalisten): oproep jihad tegen Algerijnse regering.

 

  • AIS = leger FIS <> andere salafisten, gesteund door de regering.
  • 2003: Einde strijd. Madani gaat in ballingschap naar Saudi-Arabië en later Qatar.
  • 1962: Frankrijk wint de oorlog tegen Algerije: veel gesneuvelden.
  • Kasbah: oncontroleerbare gesloten wijken. Hier werden opstandelingen uitgeschakeld.
  • Ahmed Ben Bella: eerste president (Marokkaan). Richtte het FLN op.

 

  • Boumedienne: tweede president en Eerste minister tot 1978 (rebellenleider).
  • Arabisering is een ideaal naar voorbeeld van Syrië / Egypte.
  • Onderwijzers worden gezocht bij moslimbroeders in Egyte. Geheime salafisering / islamisering / linkse trotskistische elementen.
  • Ben Bella: banneling in Frankrijk / Zwitserland.
  • Boumedienne: bondgenoten zijn Chaouia Berbers. Voert geen religieuze politiek, eigen sociaal systeem en nationalisatie van de olie.

 

  • Algerijnse diplomatie: verzoening tussen Irak en Iran (1995).
  • Olieprijs zakt met 2/3e van de waarde: opstand, ontstaan FIS, die alle verkiezingen winnen.
  • Bendjedid wordt verdreven.
  • Burgeroorlog: jaren ’90.
  • Heden: Leger staat klaar met Russische tanks: geen Tunesië of Libië.

 

  • Marokko is belangrijk in de strategie van de VS.
  • Olie: Nigeria, Kameroen. Algerije: ook prooi van Arabische Lente.
  • Militaire actie in Mali.
  • Qatar: Aqmi islamisten betalen tegen Algerijnse overheid.
  • 2012: Vier Amerikaanse NGO’s opgericht in Algerije.

 

  • Maart 2012: Abd al-Kader: “Arabische Liga is niet Arabisch en geen Liga”.
  • B. H. Levy: “Algerije is geen Arabisch land en geen moslimland. Het is een joods, Frans land”.
  • Doel: wahabitisch liberaal systeem installeren naar het voorbeeld van Qatar. Controle over de Sahel en politiek tegen Europese en Chinese invloed.
  • Joodse stammen zouden een staat van Likud (Israël) krijgen.